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Habermas, l’occhio dell’aquila: dialogo tra filosofia e religione

Si ha davvero l’impressione che Habermas abbia fatto un passo avanti verso le cose ultime

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Jurgen Habermas, sociologo e filosofo tedesco

Il rapporto tra filosofia contemporanea e religione è stato spesso burrascoso e conflittuale. A partire dall’espressione del giovane Marx sulla religione come “oppio del popolo”. Fino ad arrivare alla celebre sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”. 

Negli ultimi decenni, tuttavia, le cose sono molto cambiate, anche grazie all’ispirazione prodotta da grandi autori dell’Ottocento, come Kierkegaard e il tardo Schelling.

Proseguendo con le aperture teologiche e messianiche di grandi filosofi come Benjamin e Adorno, o di alcuni luoghi del pensiero di Heidegger e Jaspers. In Italia, due studiosi solidi e brillanti come Massimo Cacciari (si pensi al bellissimo “Dell’Inizio”) e Gianni Vattimo (si veda “Credere di credere”), hanno dato significativi contributi in questo senso.

Un cammino che viene da lontano

Nell’ambito internazionale, non può essere trascurato l’impegno speculativo di una figura del calibro di Jürgen Habermas. Al tema del dialogo tra filosofia e religione, Habermas ha dedicato i suoi ultimi, importantissimi lavori.

A partire da “Tra scienza e fede” (ed. it. Laterza) del 2005. Sotto questo profilo, nel 2012 è uscito “Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia” (ed. it. Laterza). Il libro – che prosegue la grande ricerca del 1988 intitolata “Il pensiero post-metafisico” (ed. it. Laterza) – è come sempre molto ben tradotto da Leonardo Ceppa, curatore di diversi volumi habermasiani in lingua italiana.

Facendo dialogare il pensiero post-metafisico, l’agire comunicativo, le istanze della filosofia della religione di Kant con il grande pensiero religioso tradizionale – ossia ebraismo e cristianesimo, ma non solo, anche mitologia greca e culture orientali – si ha davvero l’impressione che Habermas abbia fatto un passo avanti verso le cose ultime. 

E i sentimenti suscitati nel lettore, sono proprio quello stupore e quella meraviglia, che il Platone del “Teeteto” e l’Aristotele della “Metafisica”, consideravano alla base della filosofia

La filosofia, ci dice Habermas, non intende rinnegare Copernico, Galilei e Einstein. Così come non intende regredire rispetto alle conquiste della Rivoluzione francese. Ma, constatando che, nel XXI secolo della storia occidentale, le religioni sono più vive che mai, intende dialogare con quel bacino di senso immenso, costituito dal patrimonio religioso tradizionale, di ogni forma e provenienza. 

 
Un singolo caso

Un esempio concreto può essere fatto attraverso un luogo come Delfi, centro del paganesimo antico e del politeismo greco. Non si tratta, in questo caso, di riportare in vita quell’esperienza o di offrire sacrifici agli dèi. Semplicemente di capire cosa ha rappresentato, per il mondo antico, un luogo come Delfi.

Un libro come i “Dialoghi delfici” (ed. it. Adelphi) di Plutarco, che fu, a sua volta, sacerdote a Delfi, ci avvicina a quel mistero. È chiaro che sentenze delfiche come “conosci te stesso” o “nulla di troppo”, appartenenti all’antichissima tradizione dei Sette Sapienti e incastonate sulle mura del tempio, possono dire ancora molto all’umanità futura.

Proprio grazie alla loro eternità, alla loro appartenenza all’epoca arcaica della cultura greca, tra VII e VI secolo prima di Cristo. L’epoca in cui è possibile registrare un evento, per dirla con Colli, come la nascita della filosofia. Di questa prospettiva siamo debitori alla profondità filosofica del pensiero di Habermas.

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