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Com’era il Natale di una volta? Com’era Roma? La gente, le abitudini, le tradizioni

Quanto s’è perso in umanità e gioia di vivere rispetto al Natale del secolo scorso? Quei tempi non torneranno ma non piangiamoci addosso

Albero di Natale

Com’ era il Natale di una volta? Com’era Roma? La gente. Le abitudini. Le tradizioni. Quanto s’è perso in umanità, semplicità, gioia di vivere? Quei tempi non torneranno ma non possiamo restare supini a piangerci addosso.

Le giornate diventavano via via più corte ed eravamo ancora alla fine di novembre è già vedevi gli zampognari aggirarsi per via del Corso o nelle viuzze del centro con le loro zampogne di pelle di pecora, con quelle nenie noiose che si diffondevano per l’aria. A tanti piaceva. Io mal li sopportavo già allora. Ora sono spariti (fanno i caldarrostari a 1€ per 5 castagne). Cominciava così il periodo di Natale. Le vacanze invernali.  Il Natale di una volta si faceva più o meno come oggi ma l’atmosfera era tutta diversa e i buoni sentimenti si respiravano come il fumo delle sigarette che inondava le stanze. Il fumo e le sigarette, queste sono due cose che non ci sono più, per fortuna, almeno in quella quantità.

L’Italia era in crescita e le differenze erano più marcate ma io avevo altro nel cuore

Saranno stati gli anni prima del ’68. Roma era bellissima. I parcheggi liberi si trovavano. Era una città dolce che ti accoglieva fra le sue braccia come nel film Vacanze Romane, del ’53 o in Poveri ma belli, del ‘57. Era anche l’Italia che descrive la Cortellesi in C’è ancora domani, ma le violenze sulle donne erano tenute nascoste. L’Italia era ancora tanto giovane e le differenze regionali erano più marcate. I dialetti locali e le tradizioni pure. C’erano differenze ma c’era meno intolleranza, se ognuno restava a casa propria. In Piemonte non volevano i meridionali ma senza terroni la Fiat non sarebbe diventata grande. Li sopportavano.

Io non mi preoccupavo di queste cose. Avevo altro nella testa e nel cuore. Ero tuttavia troppo piccolo per abusare del ponentino e delle notti romane ma ero già innamorato, della vita, del futuro che sognavo, della mia compagna di scuola. Innamoramenti forti, pieni, che però potevano lasciare spazio ad altri nel giro di pochi mesi o settimane, intendiamoci. Ma quella era la situazione. Si passava da un tumulto interiore all’altro ma dentro una sostanziale serenità. Oggi è il contrario. Vedo ragazzi sopraffatti dai tumulti del mondo, con un triste vuoto interiore.

Le vacanze cambiavano le abitudini ed era più difficile vedersi tra innamorati

Si camminava molto allora. Di tram ce n’erano tanti e gli autobus costavano 50 lire (0,026€) o anche meno. Ogni biglietto con un costo diverso aveva un colore diverso e quando salivi sul tram c’era il bigliettaio. Non potevi sfuggire. Preferibilmente però si camminava. L’aria di Natale ti prendeva giorno dopo giorno. Le feste non mi sono mai piaciute perché perdevo i miei riferimenti amicali ma certo Natale era una bella occasione per i regali, per non andare a scuola, per i dolci. Non andare a scuola aveva i suoi vantaggi e svantaggi.

Quando eri adolescente, prima del ’68, non avevi grande autonomia. Non avevi motorino, telefonino, non avevi soldi in tasca, a mala pena avevi le chiavi di casa. Dovevi dire dove andavi e perché tornavi tardi. Non era come adesso. Qualcuno ancora portava i pantaloni corti a 15 o 16 anni! Figurarsi. Le mie coetanee avevano i calzettoni e le gonne sotto al ginocchio. A scuola le ragazze portavano il grembiule bianco e il fiocco blu. Noi eravamo emancipati e non lo portavamo ma poi il ’68 avrebbe spazzato via queste ridicole ingiustizie.

Non mi piaceva che arrivassero le vacanze perché sarebbe stato più difficile vedere la mia ragazza. Se era difficile per me trovare la scusa per uscire di casa, per lei lo era ancora di più. Se non usciva con cugine, parenti o genitori restava chiusa in casa a pulire, cucinare, fare i compiti delle vacanze. Segregata. Ed eravamo a Roma.

Non c’erano telefonini, si leggeva, ci si parlava e si scrivevano lettere d’amore

Se riuscivano a vederci, in qualche scampolo di ora, in quei giorni senza scuola, dove andavi? Faceva freddo per strada. Amoreggiare sui marciapiedi non era il massimo. Villa Borghese era lontana. Ci mettevi un’ora ad andarci e poi un’altra a tornare, e poi? Dove andavi? Sulle panchine, sull’erba, su un muretto… però ci piaceva. Ci accontentavamo di stare insieme. Si parlava molto. Di tutto. Di scuola, degli amici, dei romanzi, del cinema, delle canzoni. Non c’era Google, non c’era Wikipedia, si studiava, eravamo carichi di libri, ai quali si aggiungevano quelli che ci piaceva leggere: Narciso e Boccadoro, Siddharta, Il Giovane Holden…  I professori di lettere ti aiutavano, consigliavano. Erano come fratelli maggiori. Sia io che lei abbiamo avuto dei docenti che ci hanno segnato nella crescita. Oggi chi può dire lo stesso?

A casa c’era fermento. Squillava il telefono continuamente. Un telefono nero a cornetta, nell’ingresso. Con la rotella per comporre il numero e la signorina per le interurbane. I parenti chiamavano per fare gli auguri o per organizzare incontri. Venite? Quando venite? Passiamo assieme il giorno di Natale? E a Capodanno? Tutte cose di cui non mi fregava niente. Mi preoccupavo solo di quanto saremo stati via. Accettavo il mio destino. Tanto a Natale lei non la facevano certo uscire da sola.

In tv si parlava di religione, tradizione, riti e fede. Il consumismo stava appena iniziando. Viaggi non se ne facevano

La televisione aveva una programmazione ancora più melensa. Il Musichiere, Lascia o Raddoppia, Studio Uno erano le trasmissioni più attraenti. Poi c’erano i documentari su Gesù, sul presepe, su come le famiglie passavano il Natale in Australia e in Argentina. Loro al caldo e noi al freddo. Ma come sarà, pensavo, passare Natale sulla spiaggia? Poi mi sono tolto lo sfizio. Molti anni dopo. Ma certo non è affatto la stessa cosa. Natale si deve passare col freddo. Meglio se nevica. Allora non è che a Roma succedesse spesso, anzi quasi mai.

Ricordo che mia madre usciva di più con le amiche a fare shopping. La cosa mi dava un sollievo perché ero solo a casa e potevo uscire senza rendere conto a nessuno. Andare da qualche compagno di scuola. In giro. A fumare. A sognare il domani. Intanto però mi veniva voglia di scriverle. Si, perché noi si scriveva le lettere d’amore. Una pratica scomparsa tra i ragazzi di oggi. Carta e penna e giù a elencare frasi, pensieri, desideri, ricordi. Era un sentirsi uniti ancora di più. Così gli amori si forgiavano nei sentimenti, ci si confrontava, scrivendo, parlando, discutendo, sognando insieme. Non eravamo due mondi non comunicanti come ora.

L’albero si faceva l’8 dicembre con tutte palle di vetro colorate

La tradizione era di fare l’albero e il presepe. L’albero si faceva l’8 dicembre. Era già allora finto, un albero non vero. Addobbato soprattutto con palle colorate, babbi natale di vetro, renne di vetro, pastorelli di vetro. Non c’era tanta plastica in giro. C’erano legno, vetro, ferro, piombo, cuoio. Materiali solidi e fragili. Ma poca plastica. In tasca girava qualche lira, quelle di carta, le mille lire, le cinquecento di carta e d’argento. Quelle con le caravelle che avevano le bandierine sbagliate sui pennoni, poi le sostituirono.

Mia madre ne raccolse un bel po’ di sbagliate perché intuì che avrebbero avuto valore in seguito. Poi non so più dove sono finite. L’albero aveva un puntale da ricomprare ogni anno. Era sempre rotto. Le luci sull’albero non me le ricordo. Non c’erano ancora i cinesi con i loro negozi di oggetti utili ma inutili. C’era traffico ma scorreva. Ingorghi qualcuno, negli ultimi giorni dei regali, il 22 e il 23.

Non si faceva la fila per comprare niente, né telefoni, né macchine fotografiche, né playstation

Le resse di adesso non si vedevano mai. Le file a comprare l’I Phone non esistevano, ma neanche per comprare altro. Non c’erano le Nike o le Reebok. Avevamo scarpe di cuoio. Quelle da tennis, le Superga si usavano per la ginnastica a scuola, o per giocare a tennis, se eri ricco di famiglia. Poi c’erano gli scarponi da sci per le gite sulla neve: Terminillo, Ovindoli e pochi altri posti. Tutti sul pullman alle 5 del mattino, infreddoliti, imbacuccati, con la borsa della merenda.  Poi via a cantare nelle ultime file Quel Mazzolin di Fiori… ancora non c’era stato il successo di Battisti. Si cantava Tenco, Sergio Endrigo, Nico FidencoIl barattolo di Gianni Meccia o Marina Marina Marina, ti voglio al più presto sposar… Stava per arrivare il vento del Twist con Peppino di Capri e già erano esplosi i Beatles: I loves you ye ye ye

Dall’estero arrivava Neil Sedaka: i capricci tuoi son cose ridicole… oppure Gene Pitney che cantava con Little Tony a Sanremo o Paul Anka con Diana e Ogni volta… La canzone italiana godeva ancora di una certa rispettabilità e Claudio Villa era il suo Re ma Modugno aveva già infranto il muro del tempo e Joe Sentieri aveva già fatto il salterello con E’ Mezzanotte.. .a Sanremo. Le scenografie erano povere. Una parete sul fondo, un’orchestra dietro il cantante. Contava la canzone e chi cantava, non l’ospite straniero, gli spacchi nelle gonne, eventuali scandali o le gags di Fiorello (che a me piacciono moltissimo, intendiamoci).

C’era anche molta povertà ma non come adesso. Adesso i poveri non hanno speranza

Massimo Ranieri, che ha più o meno la mia età, ha pubblicato un post su Facebook in cui ricorda il suo Natale da bambino. “Nella mia vita non ricordo i festeggiamenti per il Natale: era una roba da ricchi e noi non avevamo niente. Come l’albero di Natale, chi l’ha mai avuto? Mio padre amava il presepe, ne faceva uno piccolino, ma l’albero costava troppo.

Mi ricordo però che eravamo uniti, una vera bella famiglia.

Nel freddo, perché non c’era il riscaldamento e si viveva col braciere sotto la tavola. Da mangiare ce n’era poco, molto poco. Un piatto di pasta, un pezzetto di capitone perché non era caro. Il panettone non potevamo permettercelo.

Però cantavamo ‘Tu scendi dalle stelle’ tutti insieme, con le stelline in mano.

I regali non entravano proprio nella nostra vita. La povertà è anche questo. Ricordo che mamma mi mandava da mio zio a chiedere se aveva mille o duemila lire da prestarci, e lui: ‘Guaglio’ vabbuo. Ma ci sono pure le tremila lire dell’altra volta…

Il ‘regalo’ era quando ci facevano il prestito. O quando ‘segnavano’: un chilo di pasta o due uova… a pagare passavamo poi.”

La mia famiglia non festeggiava a Roma, solo quando si tornava in Maremma

Quando fui poco più grande, ero quasi fidanzato a casa, con la mia compagna di scuola. Una via di mezzo. Ero il compagno di scuola, l’amico, ci frequentavamo ufficialmente ma non si diceva che eravamo fidanzati, perché eravamo troppo giovani. Ma noi stavamo già assieme. Sempre assieme. Per andare e tornare da scuola, come pure per confrontare i compiti o per fare passeggiate in città. Non per le feste. Lei non la lasciavano andare alle feste. Ipocrisie, paure familiari di una volta. Le cose si facevano di nascosto. Non puoi fermare il vento che soffia con le mani. Quindi bisognava industriarsi.

Oggi è tutto più facile e i risultati sono gli stupri di gruppo e l’incomunicabilità. Cominciai ad essere accettato nella sua famiglia. A casa mia le feste non erano tanto vissute. Solo quando si tornava al paese, in Maremma, coi nostri parenti. Ma a Roma i miei avevano solo amici e non parenti. Le feste erano cose da adulti: grandi mangiate di cozze e pesce comprato a Fiumicino, appena sbarcato dai pescherecci. Gite nel Lazio o in Abruzzo, con unico obbiettivo: un ristorante di carne o di selvaggina. Ma a Roma in casa mia, non succedeva niente di particolare per le feste. Da sempre.

La festa in casa e i giochi in famiglia

Così mi feci attrarre dalla famiglia della mia fidanzata. Mi accolsero bene. Erano tanti, chiusi in una stanza stretta. Con l’odore dei carciofi fritti. Era tutto fritto, i fiori di zucca, i supplì, le fettine panate, le patate, qualsiasi cosa. Poi c’erano i dolci di Natale, i torroni, le bibite gassate, i liquori. Tutti riuniti attorno al tavolo: zii, cugini, nipoti, genitori, figli, cani e bambini piangenti. Erano i pomeriggi dove si giocava a tombola, con la lettura dei numeri e le interpretazioni che ogni anno si ripetevano sempre le stesse: 47 morto che parla, 23 buco di c…, 77 le gambe delle donne, 13 la fortuna, 90 la paura… ancora me le ricordo. I fagioli servivano a segnare le caselle dei numeri che erano usciti. Tombola, cinquina, quaterna, terno, ambo e il primo numero: erano questi i premi.  

C’era lo zio artista, perché sapeva suonare il mandolino e una volta era stato nell’orchestra della Rai. I cugini grandi che già lavoravano e avevano le mogli. A mezza voce si sapevano i fatti di tutti. Quelle riunioni servivano a rammentare le gerarchie. Quello è bravo, quell’altro non ha restituito i soldi alla madre, la moglie è una pettegola, la cuginetta va male a scuola, forse ha una storia con un poco di buono. Tutte le maldicenze venivano alla luce, pomeriggio dopo pomeriggio, tra un Sette e mezzo e un Mercante in Fiera. Finché arrivava la notte ed era ora di tornare ciascuno a casa sua.

Con la pancia piena di dolci, da solo mi incamminavo per le stradine di San Lorenzo e risalivo la piazza verso Viale Ippocrate. Camminavo lungo il muro fino al viale. Casa mia era in via Poggioli. Quartiere universitario. La famiglia della mia ragazza era invece in San Lorenzo. Zona Popolare. Da qui le due differenti maniere di fare festa. Passavano poche auto veloci. Le strade erano illuminate. Roma era una città abbastanza sicura. Allora.

I luoghi dove andare in città erano gli stessi di adesso

I luoghi da visitare allora erano quelli di oggi: Piazza Navona con le bancarelle, magari con meno cose cinesi. Trinità dei Monti addobbata. Via Cola di Rienzo e viale Libia con le luminarie in alto a forma di abete e le scritte: “Auguri”. Le vetrine con le stelle di Natale e gli alberi finti. Dei bambini spedivano le lettere a Babbo Natale e le imbucavano in una buca delle Poste apposita. Poi che ci facessero delle lettere non lo so. I poveri che chiedevano l’elemosina c’erano allora come adesso. Magari raccoglievano di più. La gente era vestita bene. Tutti coi cappotti scuri: non tute, pantaloni strappati, felpe. Tutt’al più i Montgomery. Dominavano i colori scuri. Gli occhiali da vista. Le signore avevano il cappellino in tono con il vestito. Erano tutte passate dal parrucchiere prima di fare lo shopping.

Non c’era la corsa nei negozi ma si comprava. Erano i primi anni dopo la guerra in cui l’Italia respirava un po’. C’era ottimismo. Il Paese stava crescendo mentre adesso… menzogne e dati Istat poco confortanti. La gente è affranta. Poi con queste guerre alle porte di casa. Allora non si parlava tanto di armi e di guerre. Il Vietnam era lontano e la guerra in Corea era finita da poco. Su Cuba avevamo messo una pietra sopra. La Cina un paese sconosciuto. Dovevano arrivare gli anni delle stragi e dei morti ammazzati. La mafia era un fenomeno solo siciliano.

Il Presepe si faceva ma non mi appassionava. Poi venne il trenino elettrico

Il Presepe l’ho sempre fatto, fino a che ho avuto 10-11 anni. Mia madre lo conservava in uno scatolone. La capanna, la stella, il bue e l’asinello. La Madonna, San Giuseppe, il bambino, la culla, i pastori, le pecorelle, i Re Magi che si mettevano il 6 gennaio, gli angeli da collocare in alto sulla capanna, le montagne di carta, il fiume con la carta di alluminio, il manto erboso fatto di muschio preso nel bosco da mio padre quando andava a caccia.

Era un teatrino. Non mi appassionava tanto. Era statico. Giocavo coi soldatini e le macchinette ed era per me più o meno la stessa cosa. Poi passai al trenino elettrico. Almeno si muoveva e le case e i personaggi erano più attuali. Costava anche di più. Ma ci si era appassionato anche mio padre. Ci si divertiva più lui di me. Ogni anno che passava ero più attratto dagli amici e poi dall’amore. Diventai un ragazzo troppo grande per giocare col trenino, invece mio padre era un adulto abbastanza piccolo per giocarci al posto mio.

Se avvertiamo che l’atmosfera è cambiata, è perché noi siamo cambiati

Il Natale di oggi conserva ancora il ricordo di quelli di ieri ma il mondo e l’Italia sono cambiati, Roma è cambiata. Ma se avvertiamo che il clima, l’atmosfera sono cambiati è perché la gente è cambiata, noi non siamo più come prima. Gli umori, le passioni, le preoccupazioni sono diverse. Non è che non ci sia la voglia di pace, serenità, di affetti familiari, di stare bene insieme. Questa voglia ci sarebbe. È diversa la situazione economica, sempre più depressa e la consapevolezza che le abbiamo tentate tante, forse tutte, per stare meglio, per vedere crescere questo Paese ma ci siamo resi conto che non ci sarà questo domani che aspettavamo.

I giovani l’hanno capito e il 45% dei laureati in Italia se ne vanno a terminare i master di approfondimento o a cercare un impiego a Londra, a Barcellona, a Chicago. Il futuro è altrove. Qui c’è da salvare il salvabile e invece si passa dalla padella nella brace. Speriamo che la crisi economica che sta sopraggiungendo sempre più drastica faccia rinsavire il popolo. Non basta delegare. Bisogna rimboccarsi le maniche, come dopo un’inondazione, dopo un terremoto. Non sperare che qualcuno risolva per noi. Non lo farà. L’Italia la stanno svendendo pezzo a pezzo: le grandi industrie, la sua economia è sempre più asservita, sempre più dipendente da multinazionali e potenze economiche straniere. Se vogliamo tornare a vivere il Natale di un tempo bisognerà cambiare stile di vita e modo di pensare.