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Class Enemy

Un film di Rok Bicek

Vincitore del Premio FEDEORA alla 70ª Mostra di Venezia e del Premio Cineuropa al Festival del Cinema Europeo di Les Arcs; candidato all’European Award e tra i tre finalisti per il premio Lux assegnato ogni anno dal Parlamento Europeo.

Adolescenza inquieta, gioventù che affoga. Non siamo nuotatori professionisti nel mare che è la vita, ma naufraghi confusi sbattuti contro onde altissime. Naufraghi che a malapena si aggrappano ad un legno che galleggia marcio, trasportato anch’esso dalla corrente: paradossalmente il nostro unico sostegno risulta instabile.

C’è una pressa sopra le nostre teste: è enorme, gigantesca! Ci schiaccia e ci rimpicciolisce per farci entrare all’interno di una piccola stanza fatta di quattro pareti grigie, venute su da sole ed in fretta, senza che potessimo fermarle.

Non c’è il tetto; possiamo alzare lo sguardo verso l’alto speranzosi, ma invece di nuvole bianche, il rosso di una guerra: bombe di un consumismo folle, fumo nero di informazioni veicolate, rumore di valori calpestati e spari di arroganza e maleducazione.

Sfogare le proprie frustrazioni e ribellarsi al potere sembrano le uniche scelte possibili di fronte a questo triste scenario. I giovani non possono far altro che riversare il loro malessere, le loro ansie e paure su qualsiasi cosa possa scatenare reazioni, cercando così di ottenere un minimo di attenzione che ricordi agli altri che esistono.

Una scuola slovena. Dalle finestre di una classe in particolare, arriva una luce abbagliante dall’esterno. Da subito si percepisce un senso claustrofobico, coerente con la narrazione razionale e quasi teatrale, che ha come protagonista un professore di tedesco.

Il professor Zupan, interpretato da Igor Samobor, incarna la “vecchia scuola”: formativa, rigida e poco empatica. Gli studenti si trovano di fronte ad un uomo volutamente inattuale, apatico e distante, che consacra la disciplina a regola primaria; rinnega la “modernità educativa”, intesa come amichevole negoziazione tra allievi e professori, e non riesce ad accettare le pretese esagerate degli studenti, che dovrebbero solo sentirsi dei privilegiati, fortunati perché possono studiare, imparare e conoscere le meraviglie della letteratura.

Le reazioni dei giovani studenti di fronte ai metodi utilizzati dal professore riflettono le difficoltà della nuova generazione a rispettare l’autorità. Fremono come micce accese.

Si ribellano con tutte le loro forze contro fantocci di carta pesta ma soffocano all’improvviso, stanchi e a corto di fiato. Sono l’immagine riflessa dello scontento sociale globale, che cade a pezzi, inadeguata ed insicura su un tappeto di vetri rotti.

Ed ecco che un evento importante come il suicidio di una giovane ragazza liceale diviene un pretesto, una vera e propria valvola di sfogo contro il “sistema”. "La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive" (Thomas Mann). Si danno più pena le persone che sopravvivono, e non ci si sofferma davvero sui motivi e sulle cause che hanno portato una ragazza a togliersi la vita.

Di fronte a questo caos moderno, un insegnante, guida severa ed indecifrabile, armato solo di razionalità e gesso bianco su una lavagna, proverà a sconfiggere la rabbia di adolescenti privi di aspettative, attraverso la pura e antica conoscenza e il confronto educativo. 

"Sabina, in te c’è qualcosa. Comincia ad usarlo". La vita non può e non deve essere sprecata.

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