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Carlo Verdone: “La città si è impoverita”. E mica parla “de quatrini”…

I 30 anni di Compagni di scuola e un libro fotografico dagli inizi in teatro a oggi. E tante, tante riflessioni

È amato un po’ dovunque, ma innanzitutto è amato a Roma. Che lui, Carlo Verdone, ama a sua volta in quel modo definitivo e istintivo di chi appartiene all’Urbe per nascita, per formazione, per sintonia profonda con le sue luci e le sue ombre. Le luci che sono tantissime, e continuano a risplendere quando più e quando meno, dando l’impressione di potersi ravvivare in qualsiasi momento. Le ombre che sono tantissime anch’esse, ma che non bastano mai a far prevalere il grigiore e lo sconforto.

Le luci che sono un’infinità e che sembrano in grado di resistere all’infinito: eterna la città, eterni i suoi pregi. O, se si preferisce, quello strano impasto di pregi e di difetti, di grandiosità e di trasandatezza, di passione e di disincanto, che si alternano di continuo.

Carlo Verdone è ormai un ‘ragazzo’ di 68 anni. Con alle spalle una lunghissima attività (attività, non carriera: la carriera lasciamola agli arrivisti, ai rampanti, ai meschinelli in ascesa) e quindi esposto all’agrodolce degli anniversari e delle memorie. Gli anniversari: i trent’anni dall’uscita di “Compagni di scuola”, che forse è il suo lavoro più importante per profondità e varietà di toni. Le memorie: pochi giorni fa è stato pubblicato un libro che si intitola “UnoDieciCento Verdone” e che racconta quel percorso attraverso le fotografie di Claudio Porcarelli. Per ora è solo un’edizione speciale del Banco BPM, ma dal prossimo anno arriverà anche in libreria.

Verdone: “Tutti lo stesso iPhone…”

“La mia famiglia – dice in un’intervista rilasciata a Chiara Ugolini e apparsa su Repubblica – mi ha sempre stimolato a guardarmi attorno. Nel mio quartiere, tra Campo de’ Fiori e Trastevere, passavo le ore a guardare il rigattiere, il vetraio, il calzolaio, l’alimentari, quel teatro aperto cittadino, con la gente che si parlava da finestra a finestra, che oggi non esiste più. I romani sono stati deportati in periferia, si è persa quell’umanità e la città si è impoverita. I miei personaggi sono nati da quell’osservazione e dal furore creativo che ha fatto emergere con naturalezza e senza prove i vari Leo, Mimmo, Furio…”.

Detto da lui colpisce particolarmente, quel “la città si è impoverita”. Ma il prosieguo della riflessione chiarisce che il degrado non è un problema solo locale. Un’attenuante per un verso e un’aggravante per l’altro. La causa non è Roma in quanto Roma. La causa è il mondo che corre nella direzione sbagliata.

“La ragione è l’omologazione: una volta esistevano i tipi diversi, oggi abbiamo tutti lo stesso tatuaggio, lo stesso IPhone… Al posto della critica è rimasto l’odio sociale e il turpiloquio, soprattutto sui social, si parla sempre di meno e si digita di più”.

Almeno quelli che amano Verdone – e che sono moltissimi – sono invitati a soffermarsi senza troppa fretta, senza la solita fretta, su questo istupidimento generale. Uscendo dai cinema non siamo condannati a ripiombare nella superficialità e nella frenesia. Uscendo dai cinema della realtà, in cui paghiamo il biglietto e finita la proiezione dobbiamo levarci di torno, abbiamo a disposizione un altro “cinema”, che possiamo riaprire e frequentare ogni volta che vogliamo: quello fantastico dei nostri cuori in cerca di bellezza.

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