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Anche la Corte di Giustizia conferma: il calcio non è più sport ma business

Il calcio del Duemila è questo. E non c’è nulla di casuale in ciò che lo hanno fatto diventare, forzatura su forzatura, opportunismo su opportunismo

Campo di calcio

Si è rotta una barriera. E così come era non la ricostruirà nessuno. L’assetto preesistente potrà anche sopravvivere a lungo, a causa dell’immane intreccio di interessi su cui si basa, ma il dato di fatto rimane: la sentenza con cui mercoledì scorso la Corte di giustizia della UE ha riconosciuto la legittimità della Superlega di calcio fissa uno snodo fondamentale. E, appunto, irreversibile.

La legittimazione della Corte di Giustizia è uno snodo duplice

Da un lato sancisce sul piano giuridico ciò che in effetti è sotto gli occhi di tutti già da molto tempo, benché coperto (coperticchio…) dalla foglia di fico dell’ipocrisia generale: il calcio professionistico, e specialmente quello di vertice, non è più uno sport ma un business.

Dall’altro lato, come in fondo è inevitabile, ne trae la logica conclusione: essendo un business rientra nel principio della libera concorrenza. Ovvero, nessuno ne può rivendicare il monopolio.

L’ambiguità, finora, ha ruotato intorno al fatto che le federazioni gestiscono anche la dimensione dilettantistica, alla quale viene riconosciuto un trattamento particolare, e una tutela “anomala”, in virtù della sua funzione sociale, vera o presunta.

La mistificazione ha radici antiche, ma è diventata sempre più capziosa e spudorata negli ultimi decenni. E a smentirla, a svergognarla, basta già l’abissale differenza tra le società di capitali che sono proprietarie dei club di maggior rilievo e le associazioni che vivacchiano nelle serie minori.

Il calcio oggi? Avete presente Hollywood?

Non si tratta affatto di un dettaglio organizzativo, ma di una questione dirimente.

Le imprese utilizzano la competizione sportiva per farne uno spettacolo e conseguire un lucro. Le associazioni hanno come ragion d’essere l’agonismo fine a se stesso.

Le associazioni si sforzano di raggiungere quell’autofinanziamento che consenta di coprire i costi d’esercizio e continuare a esistere.

Le imprese, al contrario, mirano a massimizzare i ricavi e gli utili con ogni mezzo, dai diritti tv al merchandising, subordinando qualsiasi altro elemento alla realizzazione di uno show attraente e vendibile. Vedi i Mondiali dell’anno scorso in Qatar, per citare un esempio clamoroso e recente. Vedi le squadre stracolme di giocatori stranieri e con legami sempre più labili con la propria storia e il radicamento territoriale originario, sino a sacrificare gli stessi colori sociali nelle “terze e quarte maglie”.

Non è solo un problema di quantità – fiumi di denaro contro introiti modesti – ma di qualità.

Cambiano le finalità e cambiano i metodi. Cambia, e si stravolge, la natura stessa dell’attività svolta.

Cambiano, soprattutto, i messaggi che vengono trasmessi al pubblico: l’obiettivo non è diffondere i valori etici dello sport, a cominciare dalla lealtà dei contendenti e dallo spirito di sacrificio degli atleti, ma suscitare le tipiche reazioni degli spettatori che si eccitano lì per lì e che però rimangono fondamentalmente passivi. Soggiogati dalla fascinazione per i successi altrui e per gli enormi vantaggi, di guadagni e di notorietà, che ne derivano ai protagonisti.

I campioni diventano star. Gli appassionati diventano fan.

Proprio come avviene, da sempre, nello show-business di matrice americana.

Obiettivo: le nuove generazioni

C’è modo di tornare indietro, rispetto a questa deriva che dilaga ovunque?

No. Con ogni probabilità non c’è: perché, come abbiamo già ricordato all’inizio, il groviglio di interessi è troppo vasto e cospicuo per poter pensare che venga sciolto. Men che meno da parte di quegli stessi soggetti che ne sono compartecipi, a vario titolo ma con la medesima connivenza.

Il modello dominante è quello attuale e tale resterà. Puntando sulle nuove generazioni e sul fatto che per loro non ci sia nulla di strano, nel trovarsi di fronte a qualcosa che è ben diverso dal passato. Non avendo avuta esperienza diretta di ciò che è stato, e non avendolo assimilato sino al punto di identificarcisi, anche le innovazioni più spregiudicate non verranno percepite come un arbitrio ai danni delle tradizioni, ma come uno standard del tutto normale. O persino preferibile, perché più in linea con le abitudini acquisite attraverso la navigazione online: tutto molto veloce, perché l’attenzione è instabile e capricciosa; tutto su una scena globale, proprio come lo è la rete di Internet.

La sentenza della Corte di giustizia UE, quindi, non prefigura alcuna inversione di rotta, rispetto alla trasformazione del calcio-sport in calcio-business. Anzi, la consolida ulteriormente.

Il suo unico merito è paradossale: porta il degrado alle sue estreme conseguenze. Togliendo agli sciocchi, e ai farisei, qualsiasi residua possibilità di rifugiarsi negli alibi della disattenzione e del malinteso.

Il calcio del Duemila è questo. E non c’è nulla di casuale in ciò che è diventato. Anzi: in ciò che lo hanno fatto diventare, forzatura su forzatura, opportunismo su opportunismo, tradimento su tradimento.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia