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Tipi romani, “Città da cani” di Giuliano Compagno

Io voglio bene ai cani, come non si potrebbe volerne? Ma annegando il luogo comune, non amo tutti i loro padroni

Io voglio bene ai cani, come non si potrebbe volerne? Ma annegando il luogo comune, non amo tutti i loro padroni. Per esempio, da chi manifestasse il desiderio di comprarne uno, pretenderei una autodichiarazione di vivibilità: non possiedi un ampio terrazzo? No. Senza giardino? Spiacenti, no. La crudeltà di abbandonare per mezza giornata il quadrupede in un balconcino da cui abbaierà come un pazzo senza sosta, è tipica del romano semi-periferico. Come la minoritaria ma insopportabile negligenza nel raccogliere feci che, si sappia, fanno schifo solo a guardarle, figuriamoci a pestarle. Inoltre sarei per una corretta mappatura di aree giardino destinate agli animali e di zone no-entry solo per bambini. Tutti i cani sono buonissimi per i loro padroni, il problema è che non stiamo nelle loro teste.

Avevo un maremmano che, non lo avessi controllato con attenzione, avrebbe ospedalizzato il 50% dei canidi di Villa Chigi. Era dolce ma una volta morse il seno di un ospite. Perché? Boh. Invece nel 2012 un mio amico filosofo fu ridotto malissimo da un animale inferocito. Insomma, basterebbe che i possessori di cani si rendessero conto che la relazione col quattrozampe è un loro amore, non un sentimento universale. Si dirà che ciò vale anche per i bambini e che molti genitori sono parimenti impositivi. Vero. Ma la vita da cani del mio parchetto sotto casa, io non la voglio fare. E a Roma assegno la palma dell’inciviltà.                 

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