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Studenti ed esami di maturità: “Io speriamo che me la cavo”

Riflessioni sull’esame di maturità

C’è una cosa che ricordo più di tutte del mio esame di maturità: l’ansia. L’ansia che poi si porta con sé notti insonni, tachicardia, inappetenza, nervosismo e, da non sottovalutare, istinti omicidi nei confronti dei nostri prossimi che vogliono convincerci che “l’esame non è niente”.

Ma che ne sanno loro? Tu sei lì, immerso tra appunti ed evidenziatori, a cercare disperatamente di capire cosa dica Hegel perché quel giorno in cui il professore l’ha spiegato avevi la febbre (oppure, molto più probabilmente, avevi deciso di "fare sega"), e loro pretendono di convincerti che “l’esame non è niente”.
Niente? E ti pare niente ricordarsi a memoria tutte le figure retoriche contenute in 3 cantiche della Divina Commedia?

Sì, perché a quanto pare, è più importante il chiasmo del messaggio che Dante ha voluto darci scrivendo.
Ecco, questo è il punto. Noi studenti del 2000 siamo costretti a convivere con un sistema scolastico ancestrale e desueto, di cui poi non ci rimarrà che il titolo della tesina e lo sforzo disumano prodotto per capire se all’orale ci faranno domande per attinenza o per contrasto al tema prescelto.

All’orale, ti presenti già con le infradito ai piedi, e mentre stringi la mano ai professori finisci di allacciarti il costume: “Sì sì, vabè, abbiamo fatto? No, perché io dovrei anche andare al mare”. E una volta usciti da quell’aula, calda, dove ci sono quei professori seduti che per un momento ti sembra abbiano le stesse sembianze della bambina de L’Esorcista – tanto che tu inspiegabilmente diventi d’un tratto analfabeta, non ricordi nemmeno più come si coniughi all’indicativo presente il verbo essere, figuriamoci a mettere su un discorso per spiegare la tettonica delle placche – ti sembra di assaporare la libertà.

Quella libertà che poi scoprirai effimera, che libertà non è quando non si hanno vincoli, e, soprattutto, che il compito più difficile è dare regole a se stessi. E, solo dopo qualche anno, capirai cosa volevano dire quei versi del Purgatorio: “libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Che poi sono le parole che Virgilio rivolge a Catone Uticense, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, riferendosi al suicidio di Catone a Utica, alla vigilia dell’avvento della dittatura cesariana.

Ma intanto sei al mare, il tuo dovere l’hai fatto, chi se ne frega di Catone, tanto la dittatura da noi è finita con la morte di Mussolini (“Oh raga, a proposito, ma quando è morto Hitler? Non è che gli ho detto una data sbagliata?”). Chi se ne frega di Dante, “ma non c’aveva proprio niente da fa questo anziché scrive tutta ‘sta roba? Ma non era meglio se andava da Beatrice e gli proponeva una pizzetta insieme?”.

Ma da cosa dipende tutto questo? È davvero imputabile lo sfacelo del sistema (d)istruttivo italiano alla scarsa voglia dei ragazzi di mettersi sui libri? Davvero c’è qualcuno che crede, o è disposto a convincersene, che le nuove generazioni abbiano come interesse solo il tweet compulsivo e al massimo la lettura del retro delle confezioni dei videogiochi? Che i ragazzi di oggi diano il meglio del loro impegno solo per trovare nuove parole su Ruzzle e non per essere uomini migliori un domani? Ci vuole un bel coraggio a rispondere “sì”, a dire che è assolutamente così. Parola di una ventiduenne che da sempre convive con la sfiducia del resto del mondo nelle capacità dei ventenni.

Perché, sì, ben venga il conflitto generazionale, ben venga la lotta tra padri e figli, tra chi non sa nemmeno come si accende un computer e chi, in sala parto, alla seconda spinta della madre, già scrive su Facebook: “Sono nato”. E giù con 'mi piace' e condivisioni. Ma questa è una componente insita all’evoluzione della società. Tutte le altre speculazioni prodotte per giustificare l’apatia, la noncuranza e l'inettitudine di chi-di-dovere, la sua incapacità nel rivoluzionare questo Paese per consentire alle nuove leve di sfruttare al meglio le loro risorse, non sono giustificabili. In nessun modo.

Perché ciò che alla nostra scuola manca, è proprio la capacità di dare strumenti adeguati agli studenti. Non è “vecchio” il De Bello Gallico, né l’Orlando Furioso, né tantomeno Plutarco.E' vecchio il modo con cui queste informazioni vengono diffuse. Kant è nato nel 1724, è morto a inzio Ottocento, e ciao. Sì, ma tutto il resto?

L’attualità di quello che si studia è impressionante. Ricordo ancora che quando traducevamo Cesare, ci veniva chiesto se, dopo così tanti anni, sembrava cambiato qualcosa. No, non è cambiato nulla. La natura dell’uomo è sempre la stessa, da miliardi di anni. Sia che si abbia un tablet tra le mani, o “semplicemente” una ruota. E infatti, poi, studi anche che la storia è fatta di corsi e ricorsi, e il cerchio si chiude. Capisci quello che ti volevano insegnare, lo riferisci durante l’interrogazione, torni a casa, dici a mamma di aver preso 7, e ti becchi anche il premio. Però, hai solo capito. Non hai appreso, né imparato. Hai conosciuto, non hai assimilato.

E come si fa ad assimilare? La risposta, è molto semplice. Facciamo un esempio banalissimo, e parliamo dell’amore. Quante ragazze e quanti ragazzi ogni giorno fantasticano sulla storia della loro vita, sul bacio al tramonto e sulla prima volta in riva al mare? Poi, arriva il momento in cui vivono il loro primo amore, poi anche il secondo. Forse anche il terzo e il quarto, ne hanno esperienza. Ma fino a quel momento, tutto ciò che leggono, dicono, ascoltano, rimane sospeso tra due realtà, una fuori di noi, una dentro di noi.
Così è per Dante. Così è per Catullo. Così è per Saffo, alla cui lettura qualche studente può al massimo ringalluzzire e pensare: “Anvedi oh, erano forti ‘sti greci”.

Sì, peccato poi che proprio la Grecia, la patria della cultura occidentale, venga data, più di 2000 anni dopo, in pasto ai cani affamati. Viene chiusa la televisione di Stato – lo fecero anche i nazisti, ma mica sarà vera allora questa storia dei corsi e ricorsi storici? –, e il popolo muore. E questo, ci insegna che non abbiamo imparato. Che nel 2013 siamo di nuovo al punto di partenza, che da millenni combattiamo contro gli stessi fantasmi che, però, non hanno il viso dolce e angelico di Casper.

E i canoni su cui basano (o pretendono di basare) la valutazione della nostra maturità, sono proprio questi.
Se sai da quale scrittore classico Pascoli riprende l’intestazione di Myricae, forse hai qualche possibilità di cavartela. Ma se non sai perché Pascoli ha deciso di citare Virgilio, se non sai perché proprio in quel momento storico nasce il Futurismo, cosa volevano urlare al mondo quegli scrittori, quegli artisti, perché avevano quelle esigenze, a chi importa? La sai individuare la metonimia in questi versi? Bene, il nozionismo è tutto ciò che ci vuole. È tutto ciò che serve.

Ma a cosa, e a chi serve? Serve forse un domani per i test d’accesso all’Università? Serve forse un domani per fronteggiare le difficoltà della vita o per capire se il tuo datore di lavoro ti sta sfruttando? Perché se è questo ciò che basta e serve, allora non c’è bisogno di celebrare ogni anno (con annesso dispendio di finanziamenti per pagare i professori che svolgono il ruolo di esaminatori) questo rito angoscioso per migliaia di studenti che di stare lì, proprio non ne hanno voglia. Perché non capiscono il senso di quella tortura (metaforica, è chiaro), quell’ansia di aspettare l’uscita dei quadri, l’umiliazione da parte del compagno secchione e l’insoddisfazione del genitore verso il figlio che non ha preso 100, ma “solo” 80, o 70.

Se l’esame di maturità deve essere (e, ad oggi, è) solo una verifica di quanto appreso durante il ciclo scolastico, basterebbe un tema a fine anno e un compito di matematica l’ultimo giorno di scuola.
Perché, a questo punto, la valutazione del percorso scolastico di uno studente, può essere compiuta dai suoi docenti in aula. I quali, tra l’altro, conoscono – sicuramente meglio del Ministero dell’Istruzione – le condizioni del ragazzo che stanno esaminando, la sua situazione più intima e personale. E a costo zero per il Ministero, pensate.

Ma visto che l’esame c’è, e credo non vada nemmeno abolito (al massimo sostituito, ad esempio, con un’esperienza obbligatoria all’estero), bisogna riformare tutto. A partire dal sistema di istruzione, che coinvolga lo studente giorno per giorno in un percorso di crescita (non solo scolastico, ma anche – e soprattutto – di vita), e che gli fornisca realmente gli strumenti necessari per affrontare tutto ciò che verrà.
A partire dall’Università, l’appuntamento più prossimo per molti studenti. O a partire dal mondo del lavoro, per tutti quegli studenti che, in teoria responsabilmente e consapevolmente (sempre in un contesto di un efficace ed efficiente sistema di istruzione), scelgono di non continuare a studiare.

Ad esempio, in Inghilterra, gli esami consistono nella valutazione di 3 discipline che variano a seconda dell’orientamento universitario che lo studente vuole fare proprio. Inoltre, gli esami vengono elaborati da specifici enti di valutazione e certificazione.

Tra l’altro, agli esami di maturità del 1924/25 (la maturità fu introdotta nel 1923 su iniziativa del ministro-filosofo Giovanni Gentile), i promossi alla maturità classica furono circa il 59%, mentre quelli promossi alla maturità scientifica circa il 54%. Oggi, invece, le bocciature sono rarissime, nonostante durante tutti i 5 anni siano sempre di più gli studenti a concludere l’anno con i cosiddetti debiti, e nonostante il livello medio di istruzione sia qualitativamente sempre più basso. Perché, ad oggi, la scuola è quella che annienta il merito – e non meritocrazia -, che privilegia la valutazione di un esame-farsa piuttosto che un alto livello di istruzione e, soprattutto, di forma mentis. Insomma, una sorta di spiccia-banchi, e non da poco.

La prova di maturità serve. È importante. Perché non è una ricostruzione romantica da cinema, non è un bacio tra Nicolas Vaporidis e Cristiana Capotondi. C’è tutto nell’esame di maturità: c’è il prima-durante-dopo, c’è lo studio, c’è l’ansia da prestazione, c’è la voglia di soddisfare gli altri e se stessi.

Ciò che manca alla prova di maturità dello studente, è proprio la maturità. Ma non degli studenti, ma di un Paese che non sa formare le sue migliori risorse: i ragazzi. Per far sì che siano Uomini.
E questa non è una giustificazione per gli sfaccendati e per i pigri, ma è un monito. Un invito che, speriamo, qualcuno raccolga. Presto.

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