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Riforme: cancelliamo il Titolo V. Alle Regioni solo poteri attuativi

Riforme: i movimenti disgregazionisti si presentano come alternativa populista nei confronti del governo centrale, dopo la sciagurata riforma del titolo V

Riforme, Luca Zaia, Regione Veneto

Luca Zaia, Regione Veneto

Riforme. Come è ormai sotto gli occhi di tutti, l’esigenza primaria di arginare la pandemia con il contenimento sanitario e gli obblighi restrittivi imposti alle persone e alle attività ha fortemente approfondito la crisi economica della società italiana (ma anche di quella europea e mondiale), che ancora non si era ripresa dalla crisi finanziaria del 2008.

La  Politica, nel suo rapporto dialettico governo-opposizione, è apparsa incapace di dare una linea forte per la risoluzione dell’emergenza. Lo abbiamo visto dalla successione di proclami, iniziative altisonanti e ripetizioni di formule auto giustificative.

Ciò ha ulteriormente aggravato la sfiducia dei cittadini nei confronti di tutte le principali istituzioni dello Stato: Governo, Parlamento, Regioni, Magistratura. Sembra, se i sondaggi d’opinione hanno un valore, che si salvi soltanto il capo dello Stato.

Riforme. La politica manipola la sfiducia dei cittadini

Su questo sostrato di sfiducia però lavorano le varie forze politiche, sia di governo che di opposizione e quelle dell’imprenditoria e della finanza.

Esse sostengono, con motivazioni almeno formalmente diverse, la necessità ormai improcrastinabile di riforme che consentano la ripartenza accelerata dell’economia e un’azione più decisa ed efficace del governo politico. Cioè, agevolazione degli investimenti, detassazione e ristrutturazione del mercato del lavoro da un lato. Dall’altro, estensione e rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi e legislativi. Quindi, riforme economiche e costituzionali, i cui ambiti sono ben distinti, ma nei quali quasi sempre si intrecciano gli interessi di parte.

Alcune riforme già fatte, come quella del Titolo V e della legge elettorale, hanno modificato in parte la nostra carta costituzionale. Altre, di stampo presidenzialista, che si vorrebbero attuare, la stravolgerebbero completamente.

La nostra Costituzione, la più bella del mondo

Ora, io non so se la nostra Costituzione sia “la più bella del mondo”, come si dice con giustificato calore da parte dei suoi difensori. Certamente però la sua architettura è molto equilibrata nel senso delle moderne democrazie parlamentari, alle quali, credo, si è ispirata.

Infatti, essa riconosce che la sovranità appartiene al popolo, il quale la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla carta stessa. Inoltre riconosce l’autonomia dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Poteri che devono esplicarsi in  modo indipendente l’uno dall’altro, confrontarsi e controllarsi reciprocamente. Questa tripartizione è di eredità illuministica, che a noi italiani, peraltro, appartiene soltanto  in parte.

La Repubblica, la Monarchia e le Riforme

Infatti, la nostra Costituzione fu elaborata dall’Assemblea Costituente dopo il referendum popolare che fece la scelta della forma repubblicana di governo contro quella monarchica. Al termine della guerra mondiale, che in casa nostra aveva avuto la grave appendice fratricida seguita al crollo del regime fascista.

Pertanto, anche per evitare pericoli di revanscismo monarchico o peggio, la carta fu elaborata in una forma detta rigida. E prevede una disciplina speciale (art. 138) per la revisione costituzionale di articoli o singole parti di essa. Mentre vieta espressamente la revisione della forma repubblicana (art. 139).

E’ bene ricordare che nell’elaborazione e nella redazione definitiva della Carta si raggiunse un alto livello di convergenza tra le forze politiche dell’epoca uscite dalla Resistenza, di ispirazione cattolica, social comunista, repubblicana e azionista. Fu così che in un breve arco di tempo (meno di due anni) lo Statuto Albertino, peraltro soffocato dal regime fascista, fu sostituito da una moderna costituzione repubblicana.

Costituzioni formali e materiali   

Sembrò cosi che il nostro Paese recuperasse un divario storico di democrazia rispetto ad altri che la sperimentavano già da secoli. Per esempio la Francia, dove si erano affermati i diritti dell’uomo con la Rivoluzione; o il Regno Unito, monarchia costituzionale da molti secoli.

In quest’ultimo anzi, in seguito alla sollevazione dei baroni contro il Re, aveva visto la luce nel 1215 la Magna Charta Libertatum. La prima carta dei diritti fondamentali dell’uomo (anche se allora si riferiva ai soli uomini liberi): libertà personale, proprietà, giustizia. Erano contemplati anche i diritti delle donne, con largo anticipo sulla modernità. La stessa carta ha ispirato la costituzione degli Stati Uniti, pur nella rivendicazione dell’Indipendenza dalla patria di origine.

Inoltre, penso che il Diritto inglese abbia contribuito anche alla modernizzazione di Stati che si affrancavano dall’Impero coloniale, come l’India.

Quel che vorrei dire è che una carta è sì una convenzione formale, ma è nello stesso tempo un’insieme di leggi scritte che i cittadini  di uno Stato si impegnano a rispettare.

Perciò costituisce le radici di un popolo e ne tempra il carattere nell’evoluzione storica.

Le Riforme e il senso di appartenenza

Il nostro Paese ha raggiunto l’unità formale molto tardi rispetto ad altri e in modo “forzato”. A nulla sarebbero valsi i moti risorgimentali senza l’interesse espansivo di una piccola casa regnante e senza gli aiuti che essa ottenne tramite scambi politici con alcuni Stati europei (Francia ed Inghilterra, appunto).

Dopo il disfacimento del Feudalesimo non c’è mai stato un movimento teso all’unità nazionale, che non veniva neppure concepita. Ci sono state anzi le guerre fratricide tra Comuni, grandi e piccoli. Eppure, questi vengono ancora esaltati come simbolo di libertà e solidarietà, come nel patetico discorso del presidente Mattarella del 2 giugno scorso.

Viene da pensare che forse fu un male che il Carroccio vinse contro l’imperatore tedesco. Magari uno Stato unitario sarebbe poi divenuto indipendente, facendo sviluppare un senso di appartenenza comune.

Disgregazione sociale e autoritarismo

Invece, oggi abbiamo la Lega padana che rivendica improbabili barbare origini celtiche e la Liga veneta che sogna la restaurazione del potere dei Dogi!

Mistificazione ideologica degli interessi di una estesa imprenditoria medio-alta, oggi inserita nel mercato della globalizzazione, accreditata anche presso la parte più disagiata della società.

Questi movimenti disgregazionisti hanno oggi buon gioco nel porsi come alternativa populista nei confronti del governo centrale, appoggiandosi alla sciagurata riforma del titolo V della nostra Costituzione, attuata, come abbiamo già detto, da un governo di centrosinistra nel 2001.

Uniti nel nulla

Ma non soltanto leghisti, parafascisti o altro. Anche  successori dei buoni governi regionali di sinistra, cresciuti sulla greppia delle cooperative rosse, assumono ormai la stessa posizione.

E’ impressionante la sintonia tra la vacuità di un Fontana, l’arroganza ignorante di uno Zaia e la prosopopea colta di un Bonaccini.

Purtroppo, penso che questi soggetti abbiano anche molte possibilità di condizionare, per mezzo dei loro apparati di propaganda e dei mass media quasi totalmente asserviti, l’opinione di cittadini ormai allo stremo delle forze.

Il primato della Politica sulla Magistratura

Perciò penso che sia più forte oggi il pericolo della disgregazione sociale legata al territorio, insieme a quello della deriva autoritaria. Non  a caso tutti invocano maggiori poteri per il premier e una legge elettorale (maggioritaria o proporzionale corretta) che metta in grado l’esecutivo di governare senza intralci da parte del Parlamento. Per sopraggiunta, si reclama senza vergogna la supremazia della Politica sulla  Magistratura. Così si potrebbe correggere l’art. 68 nel seguente modo: “nessun membro del Parlamento può essere perseguito per le opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni, ma neppure per le malefatte!”.

Cancelliamo la riforma del Titolo V

Fosse per me, bisognerebbe cancellare immediatamente la riforma del titolo V, attribuendo alle regioni soltanto poteri attuativi, coordinati con le esigenze generali di tutta la popolazione.

Inoltre, ripristinare un corretto rapporto tra Esecutivo e Legislativo; se poi si vuole rendere più snello l’iter delle leggi, si potrebbero votare quelle ordinarie in una sola Camera, con il ricorso alla fiducia soltanto in casi  eccezionali. Il Senato, come se fosse una camera alta, potrebbe essere chiamato ad esprimersi sulle leggi che comportino cambiamenti importanti o sui casi di dubbia costituzionalità, prima di rinviare alla suprema Corte.

Ma sul come fare o con quali forze proporre simili cambiamenti, proprio non saprei.

  

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