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Politica, i due Matteo e l’attacco concentrico alla libertà di espressione

Dalla Commissione Segre a certa magistratura, aumentano i tentativi di imbavagliare le opinioni scomode. L’art. 21 della Costituzione vale ancora?

Art. 21 della Costituzione italiana. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Sarà banale, ma giova ricordare questa banalità in un periodo storico in cui essa sembra essere sotto attacco concentrico: un assalto ancora più grave perché non arriva solo da quella cloaca massima costituita dai social network, ma addirittura dalle istituzioni – o meglio, da quella parte delle istituzioni che pretende di arrogarsi la facoltà di decidere chi debba godere del diritto sopracitato.

Tipo la Commissione Segre, che pur nata da ottime intenzioni rischia di tramutarsi in una sorta di orwelliano Ministero della Verità al servizio del pensiero unico. O tipo, per precipitare ad altezza sentina, il riprovevole quanto fatuo movimento delle sardine che, rivolgendosi ai “populisti” (sic!), ha affermato: «non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare». Frase che, detto per inciso, è stata bollata come “fascista” anche da alcuni simpatizzanti del gruppo di giovani scioperati, ma solo se spacciata per dichiarazione del segretario leghista Matteo Salvini, come perfidamente documentato dal parlamentare del Carroccio Alessandro Morelli.

C’è poi un livello ulteriore, che è quello di certa magistratura che, non avendo ben chiaro il principio della separazione dei poteri, interviene a gamba tesa ogniqualvolta la parte politica di riferimento (che curiosamente è sempre la stessa) si trova in difficoltà a causa della repulsione che suscita nella maggioranza dell’elettorato. Al momento l’obiettivo è duplice, pur se caratterizzato dallo stesso nome: Matteo.

Lo maggior corno de la fiamma antica è l’ex vicepremier Salvini che, già nel mirino per le ridicole vicende dei 49 milioni (che al massimo andrebbero imputati a Umberto Bossi e Francesco Belsito) e del Russiagate alla cassoeula, si è ritrovato ora indagato dalla Procura di Roma per abuso d’ufficio: avrebbe sfruttato 35 voli di Stato per fare campagna elettorale con il pretesto di impegni governativi. «Tutti i miei voli di Stato erano per motivi di Stato, da Ministro dell’Interno, per inaugurare caserme. Mai fatto voli di Stato per andare in vacanza, quello lo fanno altri» ha commentato il Capitano, affermando di non vedere l’ora di potersi difendere in tribunale.

Già, perché sono i tribunali i luoghi deputati ai procedimenti giudiziari: ai non pochi a cui era sfuggito di mente ci ha pensato l’altro Matteo, l’ex Rottamatore Renzi, a ricordarlo.

«Non ci faremo processare nelle piazze» ha tuonato da Palazzo Madama il leader di Italia Viva, citando l’ex Presidente della DC Aldo Moro, in riferimento all’inchiesta sulla Fondazione Open che ne sosteneva l’attività politica. «È accaduta una cosa semplice: contributi regolarmente dati alla Fondazione sono stati improvvisamente trasformati in contributi irregolari. Se questo non è chiaro, il punto è che può accadere a ciascuno di voi» ha ammonito i suoi colleghi senatori, aggiungendo che ai Pm è affidata la titolarità dell’azione penale, non dell’azione politica.

«Se nelle stesse ore della perquisizione si pubblicano, con un giornalismo a richiesta, dati che solo Bankitalia o la Procura hanno, siamo consapevoli che le casualità esistono ma c’è un cortocircuito tra la comunicazione e la battaglia giudiziaria?» ha proseguito l’ex Premier, stigmatizzando la «violazione sistematica del segreto d’ufficio sulle vicende personali del sottoscritto» che ha trasformato lo Stato di diritto in uno Stato etico e poi in uno Stato etilico. «Siamo alla barbarie» è stata la chiosa.

Prassi peraltro consolidata in passato con un altro ex Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, di cui venivano ignobilmente pubblicati fatti senza alcuna rilevanza giuridica (e nemmeno politica o giornalistica  volendo) al solo scopo di danneggiarne la reputazione. Tanto per dire che il problema è culturale, ed è figlio di quella pretesa superiorità antropologica che gli utili idioti del politically correct si sono pateticamente autoattribuiti.

Ogni tanto, perciò, sarebbe bene che lorsignori scendessero dal piedistallo e facessero un bagno di umiltà nei bassifondi della realtà. Come Mark Zuckerberg e la sua creatura, Facebook, appena condannata dal Tribunale civile di Roma per la censura a CasaPound e al suo responsabile capitolino Davide Di Stefano.

Perché il movimento potrà non stare simpatico, potrà avere idee non condivisibili – ma non spetta a un social network (e nemmeno alle toghe politicizzate, se è per questo) imporre bavagli alle opinioni scomode.

A meno di non stracciare la Carta fondamentale della Repubblica e un paio di millenni di civiltà, ça va sans dire. Basta saperlo.

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