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Pietro Maso: “Li ammazzo tutti e divento ricco”, la storia di un bravo ragazzo

“Don Johnson era il mio guru: così bello, così giovane, così pieno di vita, così diverso, così unico. Amavo Miami Vice”

Pietro Maso, il diciannovenne che massacrò i genitori a Montecchia di Crosara (Verona) il 17 aprile 1991, era considerato dai genitori e dalle sorelle -come peraltro dimostrano le concordi e convinte testimonianze di queste ultime nel corso delle udienze in Assise- un ragazzo sostanzialmente “normale” e privo di attitudini devianti. Questo giudizio è rimasto praticamente immutato fino alla data del duplice omicidio dei genitori.

Eppure non mancavano eventi e situazioni stridentemente discordanti rispetto a questa convinzione dei familiari, che per quello che risulta appare, quanto meno, miopemente ottimistica.

Se Pietro viene ospitato in seminario, dove frequenta la prima media, nell’intento da lui condiviso con i genitori di maturare una vocazione da sacerdote, e ne viene espulso per motivi che le fonti di cronaca a tutt’oggi disponibili non precisano, ma che per lapalissiana consequenzialità non possono riferirsi se non a comportamenti gravemente inadeguati o riprovevoli, allora c’è da pensare che l’amato maschietto di famiglia abbia esercitato sui familiari una fascinazione affettiva tale da obnubilare il loro senso critico, perché essere espulsi da un seminario in una fase storica di desolata crisi di vocazioni non può assolutamente essere considerata una circostanza di modesto rilievo.

Torna a casa dei genitori ma, confessa, «Fu la mia prima grande sconfitta: lì (in seminario) mi sentivo accettato (sic!)». Tra le mura domestiche gli sembra mancare del tutto il calore affettivo. A questo riguardo afferma: «A tavola non si parlava mai di noi, non ho mai sentito parole di affetto, così mi adeguai allo stile di vita». E quando viene esonerato dal servizio militare per una diagnosi di “schizoaffettività”, la cosa palesemente -e dichiaratamente- non turba la coscienza educativa e sanitaria dei familiari né il loro granitico attaccamento a senso unico all’adorato rampollo di casa, alla futura colonna portante della famiglia.

Né suscita riprovazione o azioni educativamente correttive il contegno adolescenziale del ragazzo, alla costante ricerca di piaceri costosi (belle auto, viaggi, baldorie conviviali) per i quali dissipa grosse somme ingenuamente concesse dai genitori, ma anche di piaceri trasgressivi e dannosi quali il consumo di alcol e di sostanze psicotrope eccitanti, o la ricerca di sempre nuove ragazze da sedurre ma soprattutto da esibire con modalità abnormemente narcisistiche, o l’ammirevole consuetudine di farsi notare accendendosi le sigarette con banconote da centomila lire.

E allorché viene sorpreso in possesso di 2 milioni di lire sottratti alla madre, viene accoratamente dissuaso dal suo minacciato suicidio per la -dichiarata- vergogna e ci si accontenta di un suo pentimento tra le lacrime, o della sua credibile messinscena.

E quando infine falsifica la firma della madre su un assegno di 25 milioni di lire, poi riscosso da un suo amico e dilapidato in futilità e gozzoviglie, nemmeno allora c’è chi assume la doverosa iniziativa di prenderlo a rieducanti ceffoni o a calci nel sedere. Tutto questo, così come risulta dagli atti, sembra denotare in lui e nell’intera famiglia una assai confusa capacità di percezione e di valutazione della realtà dei fatti e della loro rilevanza materiale e morale, oltre che un’inconsistente, leucemica resilienza educativa.

Ma non basta: un giorno la mamma trova in casa due bombole di gas collegate ad una sveglia puntata a pochi minuti dopo e un ammasso di vestiti pressati in modo da ostruire il camino. Ma Pietro spiega che il tutto serve per una festa burlesca e alla fine viene creduto. Incredibilmente, altre successive manovre sospette e nuovi maldestri preparativi dell’eccidio vengono notati dai genitori, che tuttavia accettano sempre e comunque le spiegazioni ingannevoli di Pietro. Nessuno coglie la ormai palmare evidenza di un assassinio progettato -come emergerà dagli atti dell’inchiesta- per impadronirsi dei beni dei genitori, sopprimendo non solo i genitori, ma anche le due sorelle.

Si avvera quindi per l’ennesima volta il detto oracolare del profeta Isaia: “Dio istupidisce e acceca coloro che vuole mandare in rovina”.

Non c’è dunque da meravigliarsi se il giovane coltiva imperterrito da un lato i suoi torbidi intenti omicidi progettando vari modi alternativi per perpetrare il delitto, e dall’altro i suoi puerili e dispendiosi sogni di edonismo estetizzante ispirati ai modelli di vita e di comportamento della serie americana di telefilm Miami Vice, brillantemente interpretata da protagonista dall’attore Don Johnson, in cui imperversano ambienti di lusso estremo, ragazze da sballo, Ferrari, champagne e ville faraoniche.

«Don Johnson -dichiara il sognatore- era il mio guru: così bello, così giovane, così pieno di vita, così diverso, così unico. Miami Vice proponeva una visione aperta, mai vista… il fascino di una Ferrari bianca, ecco la personalità […] Nella mia testa ero uguale a lui perché io volevo essere diverso dagli altri, volevo una marcia in più. Mi facevo fare le giacche da mia zia, volevo stupire a tutti i costi, per avere gli occhi addosso mi mettevo le cose più vistose. La punta è stata quando mi sono presentato in discoteca con la tuta da sub, gli anfibi e l’accappatoio». Poi ammette: «Il mio entusiasmo è stata la mia autodistruzione. Mi son detto: faccio qualcosa che gli altri non potranno mai fare, uccidere i miei genitori […] …quando non c’è più legame, si uccidono i genitori».

Il piano prevede di uccidere prima i genitori, poi le sorelle e infine due dei tre maturi, saggi, intelligenti, anzi geniali amici-complici-eroi (Carbognin, Cavazza e Burato) che è riuscito ad affascinare e plagiare.

Arriva la sera del 17 aprile. Maso racconta: «Ci siamo caricati con la canzone di Phil Collins in Miami Vice. Avevamo indossato delle maschere da diavolo. Tutti tranne me: io la maschera ce l’avevo già». I feroci killers ruspanti si avventano sui genitori di Maso con spranghe e padelle, poi li finiscono strangolandoli. Dichiara ancora Maso: «Alla fine c’era un silenzio e un odore di sangue spaventoso».

Ventidue anni dopo il fatto Maso è rimesso in libertà. Torna ad assumere cocaina ed è costretto a disintossicarsi. Viene intercettata una sua comunicazione telefonica in cui addirittura si ripromette di «finire il lavoro di 25 anni fa». A questo punto le sorelle, che con magnanimità patologica o sovrumanamente santa lo avevano perdonato, rompono definitivamente i rapporti con lui. Qualcuno però segue il suo caso e compie un importante gesto: Maso rivela infatti di avere ricevuto una telefonata da papa Francesco, cui egli aveva indirizzato una lettera per implorare il perdono di Dio: «Non ci potevo credere. Mi ha anche chiesto di pregare per lui. Lui, il Papa, che chiedeva a me di pregare per lui. Io, che sono l’ultimo, il maledetto, l’assassino, il mostro».

Intervistato da Maurizio Costanzo, Pietro sembra esprimere un tardivo pensiero autocritico: «Il gesto che ho fatto è nato soprattutto dal desiderio di dimostrare che ero forte. In quegli istanti non mi rendevo conto, non avevo davanti i miei genitori, ero troppo preso dal pensiero narcisistico di me stesso». La stupefacente spirale di sprovvedutezza, contraddittorietà e lucida follia che contraddistingue questa penosa storia ha sollecitato interessanti interpretazioni d’ordine psicologico e sociologico.

Secondo il Prof. Meluzzi non si è di fronte cara un delitto passionale o di impulso incontrollabile, bensì ad un gesto gravemente patologico perpetrato da una personalità pervertita e incapace di empatia. Per cui non appare praticabile alcun vero percorso di ravvedimento.

Secondo Vittorino Andreoli, perito consulente del sostituto procuratore, gli autori del delitto erano pienamente capaci di intendere e di volere. Pietro Maso risulta, a suo parere, affetto da  un “disturbo narcisistico della personalità, di grado lieve medio, con alterazioni del giudizio etico sostenute dall’ambiente familiare e sociale in cui ha vissuto”. Per lui “i genitori esistevano, non come principio di autorità, ma come oggetto, un piccolo salvadanaio da cui poteva trarre quanto gli è servito fino ad un certo punto, oltre al quale, per avere quanto voleva, bisognava romperlo”. Poi sposta l’analisi sul piano sociologico: “Una società improntata all’apparenza, incapace di risolvere nuovi problemi, che tende solo a negare o nascondere”; “una società che è stata riempita di denaro, che è diventato il vero Dio di questi luoghi e dove la scuola è diventata una perdita di tempo”.

Un certo tipo di mentalità socialmente configurata sarebbe quindi la sostanziale causa di fondo del disagio e della devianza riscontrabili nella tragica vicenda.

Con tutto il rispetto per questo noto esperto, pur condividendo in parte il ruolo di importante “concausa” da lui attribuito allo sfondo sociale di riferimento, chi scrive ritiene che se il nocciolo della questione consistesse nella mentalità diffusa, mille altri delitti del genere continuerebbero a verificarsi a getto continuo. Il nucleo genetico predisponente e scatenante il duplice omicidio, che poteva anche essere quadruplice, deve invece essere soprattutto individuato in due ordini di fattori: nelle disgregate, improvvide, diseducative dinamiche intra-familiari ed anche, mi si consenta, nel livello complessivo di quoziente intellettuale emergente dai comportamenti e rapporti confusi, irresponsabili, ciechi e assurdi ravvisabili in ogni fase ed evento della tribolata storia.

Infine un interrogativo provocatorio: esiste davvero, ed è realmente verificabile, uno stato di sicuro ravvedimento in un soggetto con i caotici tratti caratteriali del giovane assassino.

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