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Piccoli reati? Microcriminalità? A delinquere ormai si rischia poco o niente

La cosiddetta microcriminalità è diventata una patologia radicata e onnipresente. Che si merita, eccome, l’appellativo di “macro”

Milano, aggressione studente

Milano, aggressione studente

Ogni tanto sono lì in prima pagina. Più spesso no: rimangono confinati nelle pagine interne, della cronaca nera o locale. Perché ne succedono talmente tanti, di episodi del genere, che in massima parte sono ormai ridotti a notizie “di ordinaria amministrazione”.

Che cosa vuoi aggiungere, a quello che si è detto in innumerevoli altri casi? Mica si può imbastire ogni volta una riflessione, più o meno approfondita, più o meno dolente, sul degrado sociale che fa da brodo di coltura alla miriade di piccoli reati che vengono commessi di continuo. E che vengono racchiusi nella definizione/etichetta di “microcriminalità”.

Da un lato è corretto: rispetto alle mafie, che sono molto più strutturate e che gestiscono attività ancora peggiori, i responsabili dei furti in casa, delle rapine per strada, dei borseggi sui mezzi pubblici, delle aggressioni dove capita, e chi più ne ha più ne metta, sono delinquenti di scarto. O magari non lo sono nemmeno, perché non lo fanno per “mestiere” e quando aggrediscono qualcuno è al solo scopo di sentirsi forti, pericolosi, impuniti.

Come nella vicenda del momento, che in realtà risale al 12 ottobre ma che in prima pagina c’è arrivata adesso. Ora che i cinque colpevoli, giovinastri della provincia milanese, tre dei quali minorenni, sono stati identificati e arrestati.

Ora che accanto alla mera ricostruzione dei fatti (rapinano un 22enne di 50 euro, lui li insegue, loro lo picchiano e lo accoltellano, lo lasciano a terra con ferite inferte a caso ma che rischiano di renderlo tetraplegico, dopodiché se ne vanno soddisfatti e addirittura inebriati) è venuto fuori anche il seguito. Il modo in cui, dopo, si vantavano l’un l’altro e riflettevano sulla possibilità di tirarne fuori una storia da pubblicare sui social.

Questa volta non lo avevano fatto. Però sarebbe stato fico, raga.

Ineluttabile? Non proprio 

Giusta per un verso, la definizione di “microcriminalità” è fuorviante per tutti gli altri. Perché induce a trascurare la rilevanza complessiva del fenomeno: ciò che è “micro” se lo valuti separatamente diventa invece “macro” se lo consideri nel suo insieme.

Con un’ulteriore aggravante. Il moltiplicarsi di avvenimenti simili, che avvengono in luoghi diversi e disseminati sul territorio nazionale, tende a generare una sorta di assuefazione. Sino a farli percepire come un elemento abituale, o persino costitutivo, delle società in cui viviamo: una sorta di contraltare delle libertà individuali.

Vedi ad esempio l’utilizzo delle droghe, equiparato a uno svago come tanti altri. Vedi i rave e, più in generale, la “cultura dello sballo”. Il divertimento, parossistico, come via di fuga dalle frustrazioni della vita quotidiana, per chi ha autentici motivi di disagio, o anche solo dalla noia, per chi non è povero ma non riesce a farsi bastare quello che ha.

Oppure, su un piano diverso ma tutto sommato affine, li si ritiene un effetto collaterale dell’immigrazione su vasta scala e della presenza, un po’ dappertutto, di gruppi etnici che si mantengono chiusi in sé stessi e che non si amalgamano con il resto della popolazione.

La versione buonista è che non si è fatto abbastanza per integrarli. Quella più realistica è che (molti? moltissimi?) non abbiano nessuna voglia di essere integrati, preferendo permanere nelle zone d’ombra della loro marginalità piuttosto che accettare i pro e i contro di un’esistenza rispettosa delle leggi.

Sia come sia, l’esito è quello che vediamo. Le normali attività di repressione non bastano, per quel poco che funzionano e per quel molto che falliscono. Quanto alle cause sociali, in cui si intrecciano le ripercussioni di un’economia sempre più incerta/iniqua e i miti tuttora enfatizzati del consumismo esibizionista e del successo mediatico, la tendenza generale è a considerarle dei dati di fatto. Troppo complessi per poterli correggere. Perché troppo vasti, intricati, a loro modo necessari, sono gli interessi di chi su quelle distorsioni ci campa.

E poi, scusate, da dove si dovrebbe cominciare?

Primum reprimere

Rieducare è un processo lungo. Indispensabile, ma lungo. E da affrontare nella piena consapevolezza che non si è approdati alla situazione attuale da un giorno all’altro, ma a forza di cedimenti ripetuti. Piccoli e grandi.

A volte rivendicati in chiave ideologica, nel tipico approccio progressista che odia ogni forma di autorità preesistente – mentre viceversa adora esercitare la propria, come nelle prescrizioni cervellotiche del politicamente corretto e in quelle maniacali dei woke. Altre volte assecondati per cinico opportunismo, come nell’insieme dei media mainstream, o per banale conformismo, da parte dei tantissimi che si adeguano a qualsiasi tendenza che appaia dominante, e perciò desiderabile.

La verità da cui partire è questa. Il degrado si è prodotto, e poi cronicizzato, su un arco di tempo tutt’altro che breve, per cui è impensabile ottenere rapidamente un’inversione di tendenza.

Quello che invece si può fare, nell’immediato o quasi, è intervenire in maniera ben più massiccia di quanto non avvenga oggi sui reati palesi. Palesi e prevedibili. Smaccati e arroganti, visto che coloro i quali li commettono lo fanno senza neanche nascondersi.

Il caso dei borseggiatori è esemplare, ma non è certo il solo. Il tratto comune è che a delinquere si rischia poco o niente. Perché di solito non ti beccano e poi, se anche ci riescono, le conseguenze sono blande. Per non dire inesistenti.

La giustificazione ricorrente è paradossale: le leggi vigenti impediscono di colpire in maniera più incisiva.

La giustificazione diventa un alibi: non è che non si vuole agire, è che non ci sono gli strumenti adeguati per farlo.

Ciò che si omette – e l’omissione è imperdonabile – è che allora quegli strumenti devono essere creati. Se le odierne norme penali non raggiungono i loro scopi, che per definizione consistono nel perseguire efficacemente i delinquenti, va da sé che ne vanno introdotte di nuove. Semplici quanto basta. Dure quanto serve. Non come degli optional che sarebbe bello avere, in teoria, ma che poi, in pratica, rimangono nel limbo dei desideri irrealizzabili.

È una priorità? Sì, lo è.

La cosiddetta microcriminalità è diventata una patologia radicata e onnipresente. Che si merita, eccome, l’appellativo di “macro”. E che come tale deve essere affrontata: non chissà quando, non a chiacchiere, non rifugiandosi nelle difficoltà di bilancio.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia