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Perché la guerra? Il carteggio fra Freud e Einstein

Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi

“Perché la guerra?” è il titolo del libro sul carteggio risalente al 1932 tra gli esponenti più significativi della cultura dell’epoca: Albert Einstein e Sigmund Freud; e la domanda che il fisico più famoso al mondo fece a Freud, parlando della guerra fra gli uomini.

Le lettere sono anticipate da alcune riflessioni di Freud riguardo gli avvenimenti deludenti e drammatici della Prima guerra mondiale e del modo in cui  questi hanno stravolto radicalmente la vita degli uomini e le loro relazioni etiche. “Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato così profonda confusione nelle più chiare intelligenze, abbassato tanto radicalmente tutto ciò che è elevato”.

Tra le riflessioni freudiane, ho trovato particolarmente interessante quella sul nostro atteggiamento verso la morte, in cui egli concentra diversi sviluppi teorici.

La propria morte è qualcosa di non rappresentabile, e questo ci rende in qualche modo degli spettatori di fronte ad essa; da questa incapacità di rappresentazione trae origine il motivo per cui ognuno nel suo inconscio è convinto della propria immortalità.

Vengono messi a paragone il modo di curarsi di un bambino rispetto a quello di un adulto, nel parlare della morte. I bambini non hanno premure nel dialogare sulla possibilità di morte anche di un genitore, mentre l’adulto non riesce neanche a pensare la morte di un’altra persona, a maggior ragione se di un caro.

Sappiamo che la morte arriva per tutti ma ogni qualvolta questo evento si verifica lo viviamo profondamente scossi, inducendo così un meccanismo che riduce la morte da fatto necessario a fatto casuale. Questo modo di considerare la morte ha un effetto negativo sulla vita impoverendola, perché annulla il valore del mettere a rischio quella che dovrebbe essere la posta più alta del gioco cioè la vita stessa (“Navigare è necessario, vivere non è indispensabile!”).

Accade perciò che cerchiamo nel mondo della 'finzione' come quello della letteratura o del teatro, un eroe che sappia morire (al posto nostro) a cui nel contempo sopravviviamo per essere pronti a morire una seconda volta.

“La morte non può più essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno. Non è più qualche cosa di casuale ormai”.

Einstein riconosce una minoranza di individui che dalla guerra ricava vantaggi e potere, a dispetto della maggioranza che ne trae solamente dolore e terrore; questa minoranza per sottomettere la maggioranza al proprio interesse si serve del controllo dell’informazione, delle scuole e delle istituzioni religiose.

Il fisico di fronte a “la presente condizione del mondo”, è uno di quei giusti che non riesce a rimanere lì a guardare; egli è conscio del fatto che bisogna cercare di difendere la pace, perché una nuova guerra internazionale sarebbe ancora più devastante.

Nella lettera chiede allo psicologo: “Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?”.

Freud nonostante considerasse il dialogo della lettera di Einstein “noioso e sterile”, manda la sua risposta il mese successivo…

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