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Pensare la Letteratura: l’esempio di Alberto Asor Rosa

A un anno dalla scomparsa di Asos Rosa, l’allievo Daniele Lorusso ricorda il maestro di tante generazioni di studenti

Alberto Asor Rosa

Alberto Asor Rosa

Agli intellettuali italiani scomparsi in questi ultimi anni, tutte tempre forti – Umberto Eco, Emanuele Severino, Roberto Calasso, Guido Ceronetti, Alberto Arbasino, Pietro Citati, Nicolao Merker, Tullio De Mauro, Luca Serianni – si è aggiunto Alberto Asor Rosa, venuto a mancare a Roma nel dicembre 2022.

Asor Rosa era universalmente noto come storico della letteratura italiana, un ambito disciplinare che lo ha impegnato lungo tutta la sua attività di studioso e di maestro di numerose generazioni, come professore ordinario di Letteratura italiana alla “Sapienza” di Roma.

Ma con ciò non si è detto molto, naturalmente, sul suo modo di intendere e di praticare la critica letteraria. Ognuna delle figure a cui abbiamo fatto cenno, si distingueva per una personalità estremamente marcata e caratterizzante. Eco come semiologo e romanziere. Severino come purissimo teoreta della filosofia. Calasso come rabdomantico interprete del mito.

Ceronetti come pensatore escatologico. Arbasino come narratore, in un’epoca di morte del romanzo. Citati come critico letterario. Merker come storico del pensiero moderno e contemporaneo. De Mauro come filosofo del linguaggio. Serianni come filologo e storico della lingua italiana.

Asor Rosa è stato, dunque, uno storico della letteratura italiana, un critico letterario, ma la cifra della sua attività risiedeva in una passione militante che gli faceva indagare lo spazio in cui letteratura, storia e pensiero si danno convegno, permettendo quel miracolo che ha nome cultura.

Il professore

Asor Rosa non ha mai avuto paura di schierarsi. Non è mai rimasto neutro, rispetto alle forme della civiltà politica, alla passione, all’ideologia. Ma lo ha fatto, rispetto a molti altri, mantenendo alto l’impegno critico e la lucidità dell’intelligenza, in modo non dissimile dai suoi sodali Massimo Cacciari e Mario Tronti. Se la critica è quell’attività che permette di distinguere e comprendere non solo tra le pieghe dei testi, ma tra i molteplici aspetti della realtà.

La vulgata capziosa e destrorsa del “barone rosso” è una calunnia, nemmeno molto simpatica. Arrivava tardi e andava via prima, ma ciò che dava era proporzionato all’aspettativa. Splendidamente vestito, con baffi e chioma rigorosamente bianchissimi, aveva una voce metallica che riempiva interamente l’aula I della Facoltà di Lettere.

Per anni, abbiamo seguito le sue tracce per carpirgli almeno un po’ del suo mistero. Il suo taglio marxista – attento alle ragioni degli umili e di quelli che devono essere aiutati a capire, ossia gli studenti in primis – faceva sì che egli adoperasse dei termini comprensibili e dei concetti semplici.

Ma c’era qualcosa che dava il senso, a noi studenti che ascoltavamo, che c’era molto di più. Ed era il timbro della sua voce. Come in Eco, Severino e Calasso, del resto. Era una voce metallica, grave, profonda. Si capiva che non era il microfono, quando venivano a parlare gli altri, che fossero colleghi di Università o Fausto Bertinotti.

Non avendo ascoltato Emilio Garroni e Gabriele Giannantoni, oltre a Merker, l’unico che potesse stare alla pari con lui era Gennaro Sasso. Lo straordinario filosofo e studioso di Dante, Machiavelli, Croce e Gentile, che – insieme a Severino – ha dato corpo al neo-parmenidismo italiano.

Il seminario su “Machiavelli e Guicciardini: tra politica e storia”, in cui Asor Rosa ospitò, oltre a Sasso, Giuliano Procacci, Walter Barberis, Giorgio Inglese e Maria Serena Sapegno, fu anche la dimostrazione di come Asor Rosa unisse la passione di maestro e di studioso a quella di grande organizzatore culturale. Il frutto più alto e significativo fu la “Letteratura italiana”, pubblicata da Einaudi in numerosi volumi.

Una volta Giorgio Colli, introducendo la terza Considerazione inattuale di Nietzsche – intitolata “Schopenhauer come educatore” (1874) – disse che ciò che conduce il giovane verso la maturità, è la capacità di scegliersi dei maestri. Ciò, affermava il grande studioso, per la modestia dell’atto. Noi avevamo trovato i nostri.

Il critico

Sobrietà, asciuttezza, robustezza, capacità critica e passione furono, dunque, gli elementi attraverso i quali Asor Rosa intesseva la sua operazione critica. Marx, Gramsci, Lukács come stelle polari, come bussole di orientamento dal punto di vista teorico-filosofico, ideologico, metodologico e storico. Con un occhio ai grandi maestri del neo-idealismo italiano Croce e Gentile, Asor Rosa seppe dialogare anche con Nietzsche, che, per decenni, fu la bestia nera, dal punto di vista filosofico, di tutti gli intellettuali orientati a sinistra.

Un episodio del suo luminoso percorso, dimostra come egli fosse un po’ al di là della media dei suoi colleghi. Nella tarda raccolta “Diario del ’71 e del ‘72” (Mondadori), uscita nel 1973, Eugenio Montale dedicò cinque poesie ad altrettanti intellettuali italiani. La prima al germanista Leone Traverso. Poi a Roberto Bazlen, il suo grande amico di gioventù, tra i fondatori di Adelphi. A Pier Paolo Pasolini. A Benedetto Croce, per celebrarlo nel ventennale della morte, avvenuta nel 1952.

Infine ad Asor Rosa. Come nel caso di Pasolini, anche per Asor Rosa, Montale usa la carta vetrata della sua ironia e della sua disillusione post-ideologica rispetto alle ragioni del marxismo. Ma parliamo, in ogni caso, del più grande lirico italiano del Novecento, l’unico il cui nome non sfiguri dopo quello di Leopardi. I bei versi iniziali dicono: “Asor, nome gentile (il suo retrogrado / è il più bel fiore), / non ama il privatismo in poesia. / Ne ha ben donde”.

Uno dei vertici della produzione di Asor Rosa è “L’ultimo paradosso” (Einaudi 1985). Come nel caso di “La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana” (Einaudi 2002), viene fuori tutta la capacità teorico-speculativa del nostro critico, la sua volontà di fare della letteratura uno strumento vivo di comprensione della realtà. A un certo punto del testo sulla guerra, troviamo questa dedica: “ai soldati irakeni / massacrati dall’Occidente / per una causa / che non conoscevano”.

Commiato

Il rapporto con i maestri ha qualcosa di simile, spesso, all’andamento della dialettica hegeliana: appropriazione incondizionata-distacco-riappropriazione (con la coscienza del momento del distacco). Con la tristezza, soprattutto, che personaggi di questo genere, in un mondo come il nostro, sono destinati ad apparire sempre più raramente.

Così, senza indebite sovrapposizioni, ci vengono in mente i versi di Dante che, all’inizio della “Storia d’Europa nel secolo decimonono” (1932), Croce volle dedicare a Thomas Mann. Utile ricordare, di questi tempi, che la dedica dispiacque in modo particolare a Benito Mussolini. I versi dicono: “Pur mo venian li tuoi pensier tra i miei / con simile atto e con simile faccia, / sì che d’entrambi un sol consiglio fei” (Inferno, XXIII, 28-30).

*Foto Agenzia Dire