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Nomine RAI: la ragnatela è enorme e ogni partito esige i suoi ragni. E ragnetti

L’ennesimo scontro si combatte nell’attuale CdA, insediato a luglio 2018. In realtà, però, le cose sono più intricate di quanto si pensi

Non chiamatela lottizzazione. Non più. Il termine è abusato. E ormai è anche fuorviante.

La lottizzazione comportava un assetto relativamente nitido. I partiti principali si spartivano le reti, quando erano soltanto tre, e le gestivano di conseguenza. Stando al classico schema della Prima Repubblica, il primo canale tv era appannaggio della DC, il secondo del PSI, il terzo del PCI. Poi, certo, sulla divisione principale si innestavano le manovre individuali o di corrente, ma lo schema fondamentale restava quello.

In seguito, invece, le modalità sono cambiate. Moltissimo. Senza perdere nulla in rapacità, sono però diventate più ambigue. Più sfuggenti. Anche perché via via l’organizzazione interna si è ampliata a dismisura e si sono aggiunte numerosissime strutture, moltiplicando di pari passo i centri decisionali. Ovvero, per dirla in maniera meno neutra, i centri di potere. Di cui in svariati casi potrebbe sfuggire l’importanza.

Mentre di solito, infatti, si pensa all’influenza della politica con riferimento ai tg e agli altri spazi di informazione o di “infotainment” (l’efficace crasi anglofona tra information ed entertainment, informazione e intrattenimento), il raggio d’azione è assai più ampio. Rispecchiando, d’altronde, la distinzione tra propaganda e governo, o sottogoverno. Tra la diffusione delle idee, autentiche o simulate, e la convergenza su interessi comuni, più o meno clientelari.

Al posto di lottizzazione, quindi, il termine giusto è occupazione. Delle caselle già esistenti o di quelle ulteriori che vengono create ad hoc. Un’infiltrazione che non si esaurisce mai e che non procede necessariamente per blocchi evidenti, come ad esempio la direzione di Rai Uno, nell’intento di avere quanti più agganci possibili all’interno dell’azienda.

Avere: ossia controllare.

Il beneficato di turno ricambierà il privilegio della nomina con una disponibilità illimitata e distribuita, secondo necessità, in tante contropartite successive, dalle più piccole alle più grandi. Qui favorirà una carriera, lì un contratto con dei fornitori esterni, là un contatto con ambienti o persone che non sono già nell’entourage del politico di riferimento.

Una ragnatela enorme e in continua espansione.

Una Rai-gnatela.

Il cosiddetto servizio pubblico

Lo avete mai fatto? Siete mai andati sul sito della Rai a vedere come viene definita la “missione” aziendale?

Se la risposta è no, dovreste spenderci qualche minuto e togliervi lo sfizio di verificare di persona. Il risultato, però, ve lo possiamo anticipare: la descrizione, si fa per dire, è quanto di più vago si possa immaginare. Si fa riferimento alle norme vigenti, sia europee che italiane, a cominciare da quelle costituzionali, e si rimanda allo statuto. Anzi, al nuovo statuto che accoglie le modifiche introdotte dalla “Legge di Riforma Rai del 28 dicembre 2015, n. 220”.

Lo statuto, a sua volta, rimanda al contratto di servizio attualmente in vigore, quello che va dal 2018 al 2022. Non potendolo analizzare in dettaglio, ci limitiamo a un unico estratto. Dall’articolo 3. Il cui comma 1 recita così: “La Rai articola l’offerta televisiva in canali generalisti, semigeneralisti e tematici, con l’obiettivo di raggiungere l’intera popolazione e il pubblico in tutte le sue articolazioni, integrando le diverse piattaforme distributive”.

Il seguito è in linea con questo approccio. Che per essere onnicomprensivo – nella sua ambizione di “raggiungere l’intera popolazione e il pubblico in tutte le sue articolazioni” – diventa del tutto indeterminato. Anzi: indeterminabile. Con un’ovvia conseguenza. Ovvia ma sottaciuta.

Essendo impossibile precisare in maniera stringente quell’obiettivo così democratico,  diventa anche impossibile accertarne la realizzazione pratica. Per esempio: che cosa significa, esattamente, “raggiungere”?

È un avvicinarsi per poi avviare un percorso di crescita – informativa e culturale – o solo per somministrare a ciascuno il tipo di programma che desidera, lasciandolo più o meno nella condizione di partenza?

La differenza è decisiva. Perché segna il confine fra l’intrattenimento fine a se stesso e qualcosa di meglio. Qualcosa che miri ad affinare il gusto, a stimolare le capacità di riflessione, ad aumentare la consapevolezza individuale e collettiva.

Per il marketing è quasi identico: la priorità è che il prodotto si venda e che generi profitti. La preferenza è che aumenti l’ottusità del pubblico o quantomeno la mantenga al suo stato corrente di ordinaria mediocrità, perennemente in bilico tra il pop e il trash. Se è Fabio Volo, benissimo. Se è Umberto Eco, pazienza.

Per il servizio pubblico, al contrario, dovrebbe essere tutta un’altra partita. Invece di perpetuare le pessime abitudini alle porcherie in stile fastfood, incentivare la scoperta di un’alimentazione più sana. E in fin dei conti anche più gustosa, perché molto più varia.

Ce ne rendiamo conto: la metafora è ad altissimo rischio, vista la passione di Viale Mazzini e Saxa Rubra per i programmi tv di cucina.

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