Meno tasse, più sanità e investimenti: la manovra scommette sul lavoro e sfida i gufi dei conti pubblici
Il Dpfp punta a ridurre il cuneo fiscale, rifinanziare la sanità e sostenere le imprese. Una linea prudente che però mette al centro salari, occupazione e crescita

Giancarlo Giorgetti, httpscreativecommons.orglicensesby-nc-sa3.0it
La prudenza c’è, ma non è la prudenza dei tagli lineari che hanno affossato l’Italia per decenni. Il nuovo Documento programmatico di finanza pubblica, licenziato dal governo Meloni e dal ministro dell’Economia Giorgetti, segna una discontinuità: finalmente si parla di meno tasse sul lavoro, più soldi alla sanità e incentivi agli investimenti. E questo nonostante il solito coro di gufi che preannuncia sfracelli ogni volta che un governo italiano si presenta a Bruxelles.
La prima scelta è quella che tocca le tasche dei lavoratori dipendenti: una nuova riduzione del cuneo fiscale. Tradotto: più soldi in busta paga, senza aumentare i costi per le imprese. È l’unico modo serio per restituire potere d’acquisto a famiglie che da anni vivono di rinunce. Non un bonus spot da 80 euro, ma una politica fiscale strutturale che prova a rendere più competitiva l’Italia rispetto ai partner europei.
Sul fronte della sanità, arriva il rifinanziamento del Fondo nazionale. Una risposta attesa da tempo, visto che ospedali e ambulatori non si sostengono con gli slogan. Liste d’attesa infinite e personale allo stremo hanno minato la fiducia dei cittadini nel sistema sanitario. Ora i fondi aggiuntivi possono segnare un cambio di rotta: investimenti in tecnologia, assunzioni e una medicina territoriale più vicina ai bisogni reali.
Poi ci sono gli investimenti, la vera leva per la crescita. In un’Europa che arranca tra stagnazione e dazi americani, l’Italia sceglie di puntare sulle imprese, proseguendo le misure del PNRR e aggiungendo strumenti per stimolare competitività e innovazione. Non è un vezzo: senza investimenti privati e pubblici l’economia rimane ferma, e i dati degli ultimi mesi lo confermano.
Certo, i numeri della crescita non fanno stappare lo spumante: +0,5% nel 2025, con un lento miglioramento fino allo 0,9% nel 2028. Ma dentro quelle cifre c’è una realtà meno grigia di quanto si racconta: l’occupazione è ai massimi dal 2007, il tasso di disoccupazione cala, le donne entrano di più nel mercato del lavoro e i giovani abbandonano meno la scuola. Sono indicatori sociali che valgono oro, perché disegnano un Paese più solido e pronto a reggere urti esterni.
E proprio i conti pubblici, il tallone d’Achille eterno, oggi raccontano una storia diversa. Deficit al 3%, in calo, e debito che dal 2027 tornerà a scendere. Risultati che hanno convinto le agenzie di rating a promuovere l’Italia e che hanno abbassato i rendimenti dei titoli di Stato. Altro che Paese sull’orlo del baratro: per gli investitori internazionali siamo più affidabili oggi che dieci anni fa.
Chi sperava nell’ennesima manovra “lacrime e sangue” resterà deluso. La strategia del governo è un’altra: conciliare il rigore chiesto dall’Europa con scelte che abbiano un impatto concreto sulla vita dei cittadini. Non è una rivoluzione, ma è un passo pragmatico: meno tasse sul lavoro, più sanità, più investimenti. I soliti soloni potranno continuare a parlare di “manovra prudente”, ma la realtà è che, per la prima volta dopo anni, prudenza non significa immobilismo.
Se la linea reggerà, l’Italia non solo uscirà dalla procedura d’infrazione un anno prima del previsto, ma dimostrerà che si può crescere senza calpestare chi lavora e senza lasciare indietro i servizi pubblici. E a quel punto, a restare senza fiato, saranno solo i professionisti del disfattismo.