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L’arte della coerenza e i sussulti della vita

Le rivoluzioni vengono tradite dalla natura incoerente, egoistica, rapace, incline al male degli uomini. Dalla loro fame di potere e di denaro

Battaglia di Ponte dell'Ammiraglio, di Renato Guttuso

Battaglia di Ponte dell'Ammiraglio, di Renato Guttuso

Se è vero il detto che “dietro ogni grande uomo, c’è sempre una grande donna”, è possibile anche affermare il suo contrario. Ossia che “dietro ogni grande donna, c’è sempre un grande uomo”. Volendo rimanere sul terreno di una critica alla civiltà patriarcale, le cui ragioni non sono soltanto astratte ed ideologiche, come si potrebbe pensare.

Anna Banti (1895-1985) fu la moglie e la compagna di Roberto Longhi, il più straordinario critico e storico dell’arte del Novecento italiano. Il suo stile, di scrittrice e intellettuale, fu autonomo e originale. Molto impegnativo il confronto sul piano delle arti figurative, di cui Banti in ogni caso si occupò, riservò a sé stessa il terreno letterario. Con risultati indubbiamente significativi. Insieme condussero la rivista “Paragone”.

Ma c’è un libro di Anna Banti che ne rappresenta al meglio l’operazione letteraria ed è “Noi credevamo” (Mondadori) del 1967, da cui Mario Martone ha tratto un film nel 2010.

Tra teoria e prassi

Si tratta di un romanzo in cui il “Risorgimento” viene “scritto con rabbia”, per utilizzare le parole che formano il titolo dell’articolo di Enzo Siciliano, posto in appendice all’edizione Mondadori del libro di Banti.

Chi conosce un poco la storia delle rivoluzioni moderne in Europa, non può ignorare quel fenomeno di primaria importanza costituito dalla figura del rivoluzionario di professione. Si pensi alla Rivoluzione francese e alla Rivoluzione d’ottobre, a figure come Robespierre e Lenin, in cui il problema della coerenza intellettuale, etica e politica, aveva un peso tutto particolare.

Un attimo prima della caduta nell’autoritarismo repressivo, nella coercizione rivolta al mondo esterno, nel totalitarismo. Figure di ferro destinate, a lungo andare, a fallire il proprio appuntamento con la Storia.

L’operazione di Anna Banti è di estrema intelligenza. Essa immagina e narra il Risorgimento italiano come una rivoluzione tradita e lo fa attraverso la figura di un rivoluzionario di professione – non giacobino o comunista, naturalmente, ma accesamente e decisamente democratico e repubblicano – che è, appunto, il protagonista del suo romanzo. Il problema della coerenza è di non difficile risoluzione quando si agita sul tavolino da lavoro del filosofo o dell’intellettuale. 

Ma, quando si tratta di rendere coerenti teoria e prassi, in quel maremoto che ha nome Storia, le cose non sono più così semplici. Siamo al limite dell’impossibilità e dell’irrealizzabilità. Con brutalità tutta sovietica, alla domanda di Simone Weil che gli chiedeva perché avesse fatto sparare sui marinai di Kronstadt, Trockij rispose: “siete dell’esercito della salvezza?”

L’arido vero

Tuttavia, nella figura del rivoluzionario di professione che è il protagonista del libro di Banti, ossia in Domenico Lopresti – nonno dell’autrice – c’è qualcosa di più. Ossia, una propensione a una visione tragica della realtà e delle cose che è molto distante da ciò che costituiva la quintessenza della cultura italiana di quegli anni.

Siamo lontani da Manzoni, Rosmini, De Sanctis, B. Spaventa e molto vicini a Schopenhauer e Nietzsche, nonché al grande poeta che qualche decennio prima aveva scoperchiato, in Italia, il vaso di Pandora del pessimismo tragico, ossia Giacomo Leopardi.

Coerenza è, dunque, anche la volontà ferma di non inseguire illusioni puerili, una volta che se ne sia individuata tutta la fallacia e l’inconsistenza. E, tuttavia, di continuare a sperare. Non solo perché senza un filo di speranza non si vive. Ma anche perché, come scrisse Walter Benjamin alla fine del suo grande saggio sulle Affinità elettive di Goethe, “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”.

Per il nostro rivoluzionario di professione, dunque, il problema della coerenza si delinea in questo modo: “Ho peccato forse – e pecco ancora – di autocritica distruttiva: ma ho troppo puntato sul riscatto dell’uomo per rassegnarmi alle debolezze che scopro in me stesso. Non perdonandomele, non le perdono a nessuno, è questo il mio tormento e il mio castigo” (Noi credevamo, p. 119).

Indignazione come forza

L’amarezza di Domenico Lopresti è quella di ogni rivoluzionario autentico. Le rivoluzioni vengono tradite dalla natura incoerente, egoistica, rapace, incline al male degli uomini. Dalla loro fame di potere e di denaro. Accadde con il cristianesimo, con la Rivoluzione francese, con quella russa, con quella cubana. E accadde con il nostro Risorgimento. Non a caso, Kant parlò dell’uomo come di un legno storto, da cui non è possibile far uscire nulla di completamente dritto.

Dunque, sono la rabbia e l’indignazione morale a dare le ali al personaggio del romanzo di Anna Banti. Ma questo atteggiamento è anche passione, energia, la volontà e la forza di guardare dritto nel cuore delle cose. La bellezza rigogliosa della natura mediterranea investe anche noi, mentre seguiamo le sue imprese.

Se fosse stato possibile far sapere, a Domenico Lopresti, della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, siamo sicuri che se ne sarebbe addolorato e amareggiato, ma che non si sarebbe stupito. La coerenza è una merce che si paga cara. Figuriamoci in Italia, per non parlare della Sicilia.

Italia come dramma

Una volta Elias Canetti scrisse, a proposito degli “Ultimi giorni dell’umanità” (1922, ed. it. Adelphi) di Karl Kraus, dramma-monstre sulla Prima guerra mondiale, che quel grande libro non aveva bisogno di introduzioni, perché l’introduzione la portava dentro di sé chiunque fosse nato nel Novecento e fosse stato costretto a viverci.

A proposito di “Noi credevamo” di Anna Banti, l’affermazione di Canetti può essere riformulata così: questo libro non ha bisogno di premesse o introduzioni, perché chiunque sia nato e vissuto in Italia, si porta quell’introduzione dentro di sé.

Anna Banti ci sferza, ci costringe a tenere gli occhi aperti, a non abituarci a tutto, a non cadere nel baratro della meschinità, del qualunquismo e dell’indifferenza. La sua scrittura sobria e asciutta ci restituisce lo splendore e il dramma di essere italiani in un’epoca come la nostra.