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Landini (Cgil) & Conte & PD: “Rilanciare il lavoro”. Bene, ma perché solo ora?

Grandi annunci e grancassa mediatica. Ma il dato di fatto è che finora si è consentito il dilagare del precariato e degli stipendi da fame

Bella idea. Come titolava ieri Repubblica in prima pagina, e con una frase che campeggiava in apertura e occupava tutte e cinque le colonne a disposizione, “Una grande alleanza per il lavoro”.

Bella idea… ma perché viene fuori solo adesso?

La domanda cruciale è questa. E andrebbe posta in maniera perentoria, o brutale, innanzitutto al PD. Che al di là dei cambi di denominazione è il partito che è stato maggiormente coinvolto nel governo nazionale degli ultimi decenni e che, quindi, porta la responsabilità di ciò che è stato fatto. O non fatto. Anche riguardo al lavoro. E alla programmazione economica, a cominciare da quelle industriale.

I dati di fatto sono sotto gli occhi di tutti: le condizioni dei lavoratori dipendenti sono drasticamente peggiorate e l’insicurezza è diventata la regola. Spingendo, tra l’altro, centinaia di migliaia di persone, giovani e meno giovani, a emigrare.

Come riportato dal sito linkiesta.it nell’agosto scorso, in un articolo basato sui dati della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, il fenomeno è particolarmente forte al Sud “che è la punta di diamante del fenomeno: in quindici anni, tra il 2002 e il 2017, se ne sono andati oltre due milioni di cittadini. Solo nel 2017 sono stati 132mila di cui la metà giovani e un terzo laureati”.

Splendidi proclami, pessimi risultati

Certo: nei documenti e nelle dichiarazioni ufficiali il PD rivendica massima attenzione e persino grandi strategie. Presentando/magnificando il Jobs Act di Matteo Renzi come una riforma benemerita il cui scopo “era di ridurre la profonda segmentazione per tipologie contrattuali del mercato del lavoro, intervenendo con l’abolizione di varie forme contrattuali precarie, che interessavano soprattutto i giovani, e dividendo il mercato del lavoro in due tipologie di lavoro, il lavoro dipendente e il lavoro autonomo eliminando così le zone grigie cd di parasubordinazione”. L’elenco delle mirabilie di cui si mena vanto è d’altronde ancora più ampio e chi fosse interessato può andarselo a leggere qui.

Tuttavia, la realtà è che nel corso degli anni si sono assecondate le molte trasformazioni negative che ci hanno portati alla situazione odierna. Vuoi per inerzia, vuoi per attiva connivenza, si è non solo permesso l’instaurarsi di comportamenti generalizzati e sempre più iniqui, ma addirittura li si è riconosciuti come dei cambiamenti indispensabili, inalberando la solita scusa delle sfide connesse alla competizione globale.

Massima flessibilità dei lavoratori, massima efficacia delle imprese.

In teoria un circolo virtuoso, a condizione che i vantaggi venissero congruamente ripartiti.

In pratica, invece, una trappola che ha reso difficile ciò che dovrebbe essere facile. E viceversa. I contratti a tempo indeterminato e a tempo pieno hanno smesso di essere la norma, i licenziamenti senza giusta causa sono diventati un giochetto, e la continuità dei versamenti previdenziali, così importanti dopo la riforma delle pensioni e il passaggio dal regime retributivo a quello contributivo, si è trasformata per moltissimi in un miraggio.

Oggi, finalmente, i responsabili di tutto questo si scuotono dal torpore e vengono a raccontarci che da gennaio in poi il lavoro tornerà a essere un tema prioritario.

Ma se volessero avere almeno un pizzico di credibilità dovrebbero ripartire da un dettagliato autodafé: spiegando perché, finora, abbiano lasciato che accadesse tutt’altro.

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