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La paura di contagio da Coronavirus blocca l’Italia. But the show must go on?

Problematici rapporti fra tutela della salute e costosi spettacoli di massa

Una volta accertato che il rischio di contagio è direttamente proporzionale al numero e alla densità per metro quadrato di persone compresenti in un certo spazio, in questo preoccupante momento storico di epidemia da “coronavirus”, forse destinata ad evolversi in pandemia planetaria, si dovrebbe evitare ogni tipo di assembramento umano: non solo nelle aree già colpite da crescente contagio, ma anche, fatalmente, in altre aree nelle quali si possa individuare una realistica probabilità di prossima diffusione del virus. Ciò comporta un ingente danno economico alle attività teatrali e  cinematografiche, ai concerti, alle discoteche, alle scuole di ballo e soprattutto al calcio. Per quanto lo Stato e gli Enti locali possano predisporre misure parzialmente compensative, il danno economico sarà pesantissimo.

Non si può sfuggire alla scelta obbligata di una sospensione temporanea ma non brevissima delle attività di massa. Per quanto riguarda il calcio, l’entità delle sue relazioni economiche, compreso l’indotto delle scommesse, della pubblicità, della stampa specialistica, etc., in caso di blocco prolungato  rischia di provocare danni tali da erodere significativamente il PIL nazionale. Chi scrive non ha dubbi né esitazioni nel seguire l’esigenza prioritaria della tutela della salute e del contrasto all’epidemia. Ma il possibile ripetersi, in futuro, di questo o altro genere di calamità riporta fatalmente anche al ripensamento critico del calcio in quanto business finanziario invadente e condizionante, nel cui ambito non possono mancare né massicce e martellanti campagne pubblicitarie, né il mantenimento di tifoserie “trucide”, né l’indebito e discutibile impegno forzato di tutori dell’ordine distolti da più urgenti compiti istituzionali.

Non ci si sottrae alla forte impressione che una collettività non possa essere di fatto dominata dalle esigenze di parte di un’attività innaturalmente trasformatasi dall’ineccepibile dimensione dilettantistica in un incontrollabile mondo di scambi venali di portata astronomica, la cui utilità economica per il Paese è tutta da dimostrare, come pure la sua distanza dai movimenti di capitali di dubbia origine. A prescindere dalle contingenti drammatiche vicende sanitarie, è doveroso ripensare allo sport professionistico: se sia fattore di salute fisica e mentale, o meno, e se valga come elemento costruttivo, o meno, di una comunità capace di operare libere scelte, non plagiate dallo scintillante mondo dello show, sportivo o di qualsiasi altro genere.

*Articolo curato da Gaetano Arezzo.

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