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La Danza di Delhi, un dramma che diventa universale

Per la regia di Elodie Treccani, in scena fino al 5 Aprile allo spazio Carrozzerie|n.o.t. di Roma

'La Danza di Delhi', dal testo dello sceneggiatore e drammaturgo russo Ivan Vyrypaev per la regia di Elodie Treccani, in scena fino al 5 Aprile allo spazio Carrozzerie|n.o.t. di Roma.

"Nella vita le cose non sono mai come uno le pensa. Sono totalmente diverse". Questa è forse la frase più rappresentativa dello spettacolo, la migliore per descrivere il primo probabile fraintendimento: se dal titolo dello spettacolo credete di entrare in sala e catapultarvi nei colori caldi e nelle danze di adorazione delle divinità indiane, dovrete ricredervi accomodandovi di fronte ad una scenografia quasi inesistente o meglio, a una panchina e a uno spazio asettico dove gli attori si muovono con l’addome pesante, angosciato  da quel groviglio di emozioni che assalgono ogni qualvolta si attraversi avanti e indietro il corridoio di un ospedale.

Questo spazio vuoto è metafora della sofferenza, dell’assenza che lascia la morte – e qualsiasi altra cosa si perde -, e della solitudine dei personaggi che malgrado si relazionino, danno prova più di una volta di una incapacità di comunicazione dell’uomo.

Cinque diverse sfere affettive colorate rotolano in parallelo sulla panchina bianca, le luci ne illuminano due alla volta, lasciando i restanti personaggi nella penombra. I riflettori approfittano del momento di sosta per mettere in luce quelle debolezze che per paura non si tirano fuori, i segreti, le difficoltà, i passi falsi dei personaggi.

L’azione è statica in quanto a movimenti nello spazio scenico, con l’obiettivo di risaltare il dramma interiore dei personaggi, attraverso il dialogo e il confronto, fissa sulla panchina dove si sovrappongono diverse realtà, in cui le cose sembrano al contempo accadere e rimanere immobili.

Una giovane ballerina è il legame con Delhi, questo è infatti il luogo dove trova l’ispirazione della danza, tra la sporcizia e i mercati infangati.

All’incontro-scontro con la madre la quale pensa che la vita è solo sofferenza, lei risponde che la felicità esiste e dipende dal cuore: per ballare non c’è bisogno di essere ballerini, così come l’arte, in questo caso della danza, può nascere anche (e soprattutto a parer mio) dalla sofferenza, in un posto di miseria e povertà come Delhi. Comprendendo questo, la passione può diventare, allo stesso tempo, qualcosa di stupendo e terrificante.

Un’escalation di pensieri sofferti a causa della morte suicida della moglie (tradita con la ballerina), porta all’apice uno dei personaggi, nel momento di impotenza e di incapacità di accettare o di poter fare qualsiasi cosa difronte alla morte (“…noi sappiamo che prima o poi moriremo ma non possiamo capirlo”). A questo punto la sofferenza del personaggio, da individuale diventa universale a tal punto da chiedere al mondo, quello là fuori, se ci sono dei colpevoli di Auschwitz o del suicidio della moglie.

L’amore non può essere infelicità, deve lasciare a tutte le cose che circondano la libertà di essere secondo la propria natura, e per essere sano, ha bisogno di essere vissuto in relazione a quello che si è veramente.

Il testo davvero ricco e lo spettacolo conciso offrono: l’inevitabile peso di una società limitata da sofferenze, incomprensioni, ingiustizie e false identità; la nostalgia del tornare in se stessi e l’aspirazione a quel modo di vivere l’arte che rinuncia a intervenire sulla vita ognuno con i propri schemi e giudizi, e cerca di discorrerne traducendo dalla sfera della ragione a quella del sentimento, la realtà…

…e l’esperienza di vivere tutto ciò insieme agli attori, ognuno nella sua singolarità, ognuno seduto sulla propria panchina, tutti dentro lo stesso spazio scenico.

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