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L’omicidio dei 2 poliziotti a Trieste. Una fatalità? Non proprio

Sembrava un’operazione di routine. Si è trasformata in una tragedia. Con la morte degli agenti Pierluigi Rotta, di Salerno, e Matteo Demenego, di Velletri

Un tragico incidente, obiettivamente imprevedibile? Nulla di più che una combinazione di circostanze fortuite che si intrecciano – che si aggrovigliano – e portano a un epilogo cruento e assurdo?

No.

Di sicuro c’è stato parecchio di accidentale nella dinamica di questo specifico episodio, ma non sembra il caso di archiviarlo troppo in fretta. Senza farsi qualche domanda supplementare. Senza chiedersi se non ci siano degli aspetti che lo collegano ad altre vicende, tra cui quella della morte avvenuta a Roma, nella notte tra il 25 e il 26 luglio scorsi, del vice brigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega.

L’impressione, infatti, è che in entrambe le vicende – e in chissà quante altre che non finiscono sulle prime pagine dei giornali perché, grazie al cielo, nessuno ci ha rimesso la vita – ci sia un elemento comune. Che va fissato nel fatto che il lavoro delle forze dell’ordine è stato reso molto più complicato, e quindi rischioso, dal timore permanente di “esagerare”. E di finire, perciò, nel mirino degli iper garantisti. Dei solidali all’eccesso. Di quelli che nei partiti più o meno di sinistra e nella stampa a essi affine non mancano occasione per gridare allo scandalo ogni volta che delinquenti e giù di là non vengono trattati coi guanti.

Beninteso: alla larga dai metodi brutali e sconsiderati degli agenti “made in USA” che aprono il fuoco a sproposito, ma allo stesso tempo non si può ignorare che, parafrasando ciò che disse Mao a proposito delle rivoluzioni, “le operazioni di polizia non sono un pranzo di gala”. Quando si ha a che fare con persone propense o addirittura già avvezze all’illegalità non si può e non si deve escludere che esse facciano ricorso, da un momento all’altro, alla violenza. Non sono gentlemen che una tantum hanno preso una sbornia e che al massimo potranno dare in escandescenze. Sono soggetti che restano pericolosi anche quando in superficie, in apparenza, rimangono quieti.

Sul campo, non a tavolino

Nel linguaggio tecnico, ma ormai entrato abbastanza nell’uso comune, si chiamano “regole d’ingaggio”. In senso restrittivo riguardano le situazioni di scontro aperto. In una chiave più ampia si estendono alle misure da adottare nell’ambito di qualsiasi attività operativa. Militare o di polizia.

Piaccia o non piaccia, è necessario dirselo con estrema franchezza: il confine tra rispetto dei diritti altrui e salvaguardia della propria incolumità personale – che peraltro è anche tutela del primato della legge nei confronti di chi potrebbe violarla o lo abbia già fatto – non è così netto ed evidente da essere sempre inequivocabile. Le decisioni sul campo non si possono prendere a freddo, con l’agio di chi si mette a tavolino e può ponderare con tutta calma le diverse opzioni. Ci si trova nel mezzo di un flusso di accadimenti che non si sa come potranno evolvere. Bisogna decidere al momento. Non si sta disquisendo in astratto. Si sta agendo in concreto.

Ma è proprio questo che gli instancabili paladini dei “poveri” delinquenti si rifiutano di capire. Vedi anche, passando dai professionisti alle persone comuni, le levate di scudi contro chi si è ritrovato davanti a ladri o a rapinatori ed essendo armato ne ha ferito o ucciso qualcuno.

In questo clima da caccia alle streghe, che ribalta i termini naturali della questione e si preoccupa assai più dei criminali che dei tutori dell’ordine e dei cittadini aggrediti, il rischio è che quantomeno inconsciamente ci si lasci condizionare dall’accusa incombente di aver usato le maniere forti. Aggiungeteci lo stress derivante dai carichi di lavoro sovradimensionati e dagli organici spesso insufficienti. Aggiungeteci la frustrazione di vedere che spesso la famosa certezza della pena non è certa proprio per niente, tra escamotage processuali come il rito abbreviato e le liberazioni anticipate per buona condotta (per non parlare di amnistie e indulti). Ed ecco che diventa chiarissimo come ben difficilmente ci si trovi nelle condizioni ottimali per agire con la massima lucidità.

Poco ma sicuro: se “nel dubbio” Pierluigi Rotta e Matteo Demenego avessero ammanettato Alejandro Augusto Stephan Meran, il dominicano 29enne che all’improvviso si è impossessato della pistola di uno di loro e li ha uccisi, adesso sarebbero ancora vivi. Ma lui era uno straniero, per di più con regolare permesso di soggiorno, ed era “mentalmente disturbato”, e quindi non propriamente un criminale…

Meglio andarci leggeri, allora. Leggerissimi. Fino alla sottovalutazione, fatale, di quanto potesse diventare aggressivo.

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