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L’Europa tra passato e presente: scuola di resistenza

In un’epoca in cui tutto sembra congiurare verso la frammentazione e la disgregazione, lui è lì, compatto come una colonna, solido come un monolite

Quando si pensa ad Ernst Jünger – su cui ci siamo già soffermati nella rubrica di cui questa è in qualche modo la prosecuzione – è all’idea di robustezza, che bisogna rivolgersi. In un’epoca in cui tutto sembra congiurare verso la frammentazione e la disgregazione, lui è lì, compatto come una colonna, solido come un monolite.

Ma non è di un ultra-prete (ci si conceda questa poco convenzionale espressione), che parliamo, quanto piuttosto di uno degli interpreti più attenti e profondi del nichilismo contemporaneo. Uno che quando scriveva e pensava, era un Martin Heidegger a prendere appunti. Non una matricola, per capirci…

Nella sua vecchiaia selvaggia, “sfrenata” – per usare la definizione di Deleuze e Guattari per il Kant della “Critica del Giudizio”, contenuta al principio di “Che cos’è la filosofia?” (1991. ed. it. Einaudi)  – che lasciò l’Europa a bocca aperta (da Mitterand a Kohl, passando per Massimo Cacciari), Jünger scrisse, tra gli ottantasei e gli ottantotto anni, un apologo, un conte philosophique alla maniera di Voltaire, che si intitola “Il problema di Aladino” (1983, trad. it. Adelphi), in cui tutti i temi fondamentali della sua opera, sono ripensati ancora e sempre di nuovo.

Il nichilismo, il totalitarismo, gli spazi di libertà, il posto dell’individuo in un meccanismo sociale che è ancora insufficiente definire globale, la morte dell’arte, le grandi risorse simboliche della cultura occidentale e orientale. 
Cosa ci spinge verso questi autori? Qual è il potere autentico di un classico? Quello di svelarci la condizione che è la nostra, conciliandoci, allo stesso tempo, con essa. Ecco perché, avrebbe detto Italo Calvino, “leggere i classici”.

Ma un autore come Jünger, offre spazi di conciliazione? Assolutamente sì…Si provi a fare un giro di zapping sui nostri canali nazionali poco prima delle dieci di sera, in un qualsiasi giorno della settimana: troveremo programmi di sinistra, di centro, di destra, tutti incredibilmente identici tra loro, salvo lievi differenze…Si provi, viceversa, ad aprire “Il problema di Aladino” a pagina 73; l’ultima riga della pagina dice: “ma il mio nichilismo si fonda su fatti reali”. 

C’è bisogno di aggiungere altro, per comprendere quanta differenza c’è tra un’analisi storico-epocale, com’è quella di Jünger e la banalità dell’informazione quotidiana? È ovvio, dunque, che non ci sono ricette a buon mercato, che il prezzo della conciliazione autentica è assai più alto, rispetto a quella offerta e preconfezionata dalla società dei consumi. Esige che si faccia esperienza del negativo, avrebbe detto Hegel, che ci si soffermi presso di lui. 

“Il problema di Aladino” ha, come intreccio narrativo, al centro il problema della morte. Ma non come riflessione, alla maniera classica, sulle cose ultime e, nemmeno come meditazione sugli orrori di un secolo come il Novecento in cui – a partire dalla Prima guerra mondiale, passando per la Shoah, la Seconda guerra mondiale, per arrivare alle atomiche sul Giappone – la morte ha avuto un ruolo centrale. Piuttosto come industria dei cimiteri, come fonte di guadagno e profitto, come problema burocratico-amministrativo la cui organizzazione richiede la massima efficienza. 

Ciò consente a Jünger di osservare il nichilismo da un osservatorio privilegiato. La morte, e il rapporto con essa, è stata sempre al centro di ogni cultura umana e non potrebbe essere diversamente. Dov’è il problema? si può domandare, volendo andare al sodo senza tanti complimenti. Il problema è che la sua gestione amministrativa ha reciso le ali ad ogni dimensione legata al sacro.

Quella dimensione che ha fatto sì che le tombe del Ceramico, nell’Atene tra V e IV secolo a. C., fossero così cariche di bellezza artistica e spirituale. Oppure, che spinge le persone di religione ebraica a deporre un piccolo sasso sulla tomba del defunto. Non deve essere dimenticato, poi, che la dimensione burocratico-amministrativa è quella che costituisce l’asse interpretativo centrale del fenomeno della banalità del male, per come Hannah Arendt lo interpretò nel suo grande libro del 1963. 

Così Jünger, nella prima metà degli anni ’80, ci offre un apologo lucido e ricco sulla condizione umana nei tempi attuali, mentre noi odierni quarantenni crescevamo ignari, plasmati dai cartoni animati, rei di averci illuso che quello che avremmo trovato fuori dalle mura di casa, sarebbe stato un mondo un pochino migliore. È il gesto del grande visionario, esattamente quello che ci si può aspettare da uno come lui, che fece aspettare Hitler fuori dalla porta, senza riceverlo…    (Foto: Il Ceramico, Necropoli di di Atene)
   

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