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L’Europa tra passato e presente: la vertigine del passato II

Essere forti e civili, amare la spada e la parola, consolare gli uomini senza ingannarli sulla loro condizione

Il terreno proprio, autentico, della filosofia è quello dell’astrazione concettuale, razionale. Almeno per quanto riguarda la cultura occidentale. Ciò significa che al suo metodo sono sacrificati i particolari, le storie singole, specifiche, individuali, le sfumature, i colori, le atmosfere, le emozioni, che, invece, brillano proprio grazie alla specificità delle singole situazioni della vita.

Di ciò si accorse Adorno attraverso la teoria del non identico, contenuta soprattutto nella “Dialettica negativa” del 1966: un pensiero che voglia superare la metafisica, sarà soltanto quello in grado di restituire al concreto la sua infinita ricchezza. Poiché la metafisica, nella sua ossessione per l’Idea, il Logos, la sostanza, il cogito, la monade, il soggetto, l’oggetto, il realismo, l’idealismo, la critica della ragione, lo Spirito, la logica, ha sempre mantenuto lo stesso approccio: quello di sacrificare la ricchezza del molteplice alla fissità dell’ideale.

Ciò accade anche dal punto di vista della metodologia della ricerca. Ci siamo soffermati, in un capitolo precedente di questa rubrica, sulla grande interpretazione che Pierre Hadot ha dato, nel volume “La cittadella interiore”, del pensiero di Marco Aurelio. Eppure, nell’ammirazione e nel rispetto per quella prova esegetica tanto notevole, sentivamo la mancanza di qualcosa. Dell’uomo, nascosto dietro al filosofo.

Il volume di Pierre Grimal, “Marco Aurelio. L’imperatore che scoprì la saggezza” (1991, trad. it. Garzanti), colma questa lacuna che il libro di Hadot lasciava in sospeso. Grimal insegnò a lungo alla Sorbona di Parigi e la sua è la mano del grande antichista, che nella sua ricerca sa far confluire una massa enorme di dati e di ricerche, senza che la sua ricostruzione perda, in termini di fascino della narrazione e di forza spirituale interna.

L’epoca di Marco fu l’ultima in cui regnarono, in modo pieno e indiscusso, i valori del paganesimo antico. Quando, nella bellissima scena del “Gladiatore” di Ridley Scott, Marco Aurelio e il generale Massimo si confrontano per cinque minuti – e l’imperatore dice al suo sottoposto: “C’è stato un sogno una volta che era Roma, si poteva soltanto sussurrarlo, ogni cosa più forte di un sospiro l’avrebbe fatto svanire, era così fragile…” – c’è in ballo la sfida che la cultura antica ha gettato al mondo.

Essere forti e civili, amare la spada e la parola, consolare gli uomini senza ingannarli sulla loro condizione. Il libro di Grimal è mirabile nella precisione con cui ricostruisce tutte le tappe della vita del grande imperatore. Il mito di Traiano, la svolta umanistica di Adriano, l’esempio di Antonino Pio, lo studio di un giovane che si è preparato al suo compito di imperatore, per tutta la vita.

Non c’è nessuna spinta all’idealizzazione, nella presentazione che Grimal offre di Marco Aurelio. Ma è ovvio che, se da una parte c’è la filosofia, lo stoicismo, Epitteto e l’Umanesimo, dall’altra ci sia la spada. Poiché Marco Aurelio, nella sua posizione di capo dell’Impero, di leader carismatico diremmo oggi, non solo non può, ma nemmeno vuole, rinnegare la grande tradizione di Roma, tanto repubblicana che imperiale.

Ed era una tradizione in cui il culto della forza per la forza, aveva un peso indubbio. Poi c’era il sogno, come si accennava: la religione tradizionale, il mos maiorum, la grande tradizione repubblicana, il circolo degli Scipioni, i romani che partono per conquistare la Grecia e ne sono conquistati, la filosofia, l’umanesimo, l’arte, Cicerone e Augusto, che sanno morire da romani, e, allo stesso tempo, da filosofi, ecc…

Ma resta che la forza aveva un peso determinante, forse preponderante. Marco lo sa e non si sottrae. La sua leggenda è dovuta anche a questo: l’imperatore pensoso e meditabondo, era in grado di sopportare la fatica della vita militare, di essere capo indiscusso e, nello stesso tempo, giurista e, nello stesso tempo, filosofo. Come Cesare e Traiano prima di lui, si muoveva nell’immane spazio geo-politico dell’Impero, come su di una scacchiera.

Solo verso la mediocrità dei familiari, e del figlio Commodo in particolare, appare miope. Ma avverte con precisione e partecipazione due dei fattori che saranno all’origine del crollo dell’Impero romano d’Occidente: la pressione dei barbari e quella del cristianesimo. Per lui che sentiva ancora alla maniera dei grandi pagani – e sarà, poi, il sentire di Goethe, di Hölderlin, di Nietzsche – il cristianesimo era, esso stesso, incomprensibile e lontano.

La provenienza orientale doveva apparirgli indubbia, così come distante doveva sembrargli la concezione monoteistica per come noi la conosciamo, di fronte alla mobile, aerea, plurale, screziata vita degli dèi greci e romani. Nel 176 d. C., in occasione di un viaggio ad Atene, volle essere iniziato ai Misteri Eleusini. Uno dei riti (e dei luoghi) di maggior profondità e spiritualità, tra quelli del paganesimo antico. Laddove le aperture della mente sono tali, da non lasciare spazio a comode e aprioristiche certezze. Ma questo Marco lo sapeva già…

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