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L’angolo dell’umanista: per un’etica minima

La cultura non risiede nell’aspetto formale della stessa, ma in quell’apertura che, in quanto tale, coincide con l’umano

Senza voler fare considerazioni eccessivamente moralistiche, se da una parte è possibile dire che il male è sempre stato parte dei fatti della storia umana, dall’altra è possibile affermare che, nella nostra epoca, il male ha assunto quel carattere banale, per cui Hannah Arendt lo aveva riconosciuto come tale, nel grande libro del 1963 sul processo ad Adolf Eichmann, intitolato “La banalità del male” (Feltrinelli).

Si prenda l’episodio del conducente Atac che, nei primi di maggio, a Roma (Corviale) accelera avendo davanti a sé un passeggero. Non c’è, in tutto questo, niente di normale. Qui parliamo di un autista che, premendo il piede sull’acceleratore, schiaccia il suo prossimo, giovandosi della grande potenza del suo mezzo. Non importa che la vittima non sia morta (ossia importa, ma non dal vertice di osservazione del criminale). Ciò che importa è la capacità, in apparenza serena, di oltrepassare limiti prima considerati invalicabili.

Con ciò non si vuole dire che il male non abbia giocato un ruolo di grande preponderanza in tutto l’arco delle vicende umane. Tutta la storia, soprattutto quella occidentale ma non solo, brulica della violenza delle stragi, delle guerre, della lotta per il potere senza esclusione di colpi. Ma, appunto, il livello di vigilanza imposto dall’etica, dalla religione, dalla cultura, permetteva di riconoscere il male e di chiamarlo per nome.

Basti pensare, per fare due esempi molto significativi, ai libri dell’Antico Testamento o alle tragedie dell’antica Grecia. Questo elemento era proprio ciò che, per Hannah Arendt, aveva reso il male banale. L’enormità della macchina burocratico-tecnica che aveva reso possibile lo sterminio, la Shoah, era tale da impedire che Eichmann e gli altri nazisti come lui, riconoscessero il male per quello era.

Ora è chiaro che, tra la Shoah e l’episodio di Corviale, la distanza è abissale. Ma ciò che importa è non abbassare l’asticella della vigilanza sui piccoli e medi episodi di violenza che abbiamo intorno tutti i giorni. Sui piccoli episodi di razzismo, sulle ingiustizie quotidiane, sulla nostra voglia di voltarci dall’altra parte, anche solo per quieto vivere.

Siamo presi in un’epoca di cecità storica, di cui quelli considerati sono solo piccoli segnali. Ma cosa ci manca, per mettere a fuoco la realtà che abbiamo di fronte? Lo studio del passato, nient’altro. Ma non nel suo senso nozionistico, vuoto, astratto. Piuttosto, nel senso in cui anche il calzolaio o il conciapelli del suo tempo, partecipavano del clima dell’Atene di Pericle o della Firenze di Lorenzo il Magnifico.

La cultura non risiede nell’aspetto formale della stessa, ma in quell’apertura che, in quanto tale, coincide con l’umano.

 

 

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