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L’angolo dell’umanista: di fronte al Destino

Vivere vuol dire saper contrattare con il Caso, la Sorte, il Destino, il Fato. Ognuno di noi gioca una partita a scacchi con la Morte

Appartiene all’umanità come tale, il desiderio di spingersi costantemente oltre i limiti naturali della nostra condizione. Dall’avventura di Alessandro Magno a quella della scienza moderna, molta parte della cultura occidentale può essere iscritta sotto questa cifra. Nessuna scoperta dell’America e nessun viaggio sulla luna, nessun tentativo di volo e nessuna fissione nucleare, se gli uomini non avessero avuto questo demone.

Così, di fronte a recenti notizie, come la morte degli scalatori Daniele Nardi e Tom Ballard sul Nanga Parbat, così come di giovani morti o in fin di vita per il Parkour – una disciplina sportiva che consiste nel compiere spericolate evoluzioni sui tetti dei palazzi – può sorgere la domanda, a volte legittima, se non sia inutile morire così. Gli antichi, meno seriosi e moralisti di noi moderni, adoperavano l’espressione: “muore giovane chi agli dèi è caro” (Menandro). 

Se Nardi e Ballard fossero riusciti nell’impresa, avrebbero cambiato la storia dell’alpinismo. Certo, per il parkour non è la stessa cosa. Ma quanti sono stati i grandi intellettuali europei, ad aver esaurito la loro parabola esistenziale in un breve numero di anni? A volte il problema è il nostro vuoto e, allora, vivere vuol dire saper contrattare con il Caso, la Sorte, il Destino, il Fato. Come nel “Settimo sigillo” di Bergman, ognuno di noi gioca una partita a scacchi con la Morte, da cui può uscire soltanto perdente. Si tratta soltanto di tempo.

Allora ci piace accompagnare di un pensiero affettuoso, chi – meno fortunato – ha messo un piede in fallo e ha chiuso la partita più in fretta di noi. È ciò che ci piacerebbe, se succedesse a noi. Non che l’etica non abbia le sue leggi, in cui rientra anche il dovere del rispetto di sé, ma il terreno della vita non è quello delle considerazioni a tavolino. A volte le situazioni sono talmente complesse, che l’indulgenza, in nome della comune condizione umana, è l’unico criterio che sembra reggere.

(Foto, Sfinge di Nassi)

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