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Ipotesi Mario Draghi: subito premier e poi al Quirinale. Due NO colossali

La scusa è che gode di vasto credito all’estero. La verità è che la politica è sempre più succube dell’economia

euro-sovranismo: mario draghi

Il Premier Mario Draghi

È il vecchio inganno dei tecnici, presentati e addirittura celebrati come indispensabile alternativa ai politici arruffoni e incompetenti. Lo stesso che era stato utilizzato a più riprese anche in precedenza, benché in modo meno esplicito, ma che ha avuto l’apoteosi a fine 2011 con l’avvento di Mario Monti e della sua equipe di “maestri” del bisturi.

In teoria, raffinati chirurghi che procedono ad amputazioni assortite ai nobili fini di un rapido risanamento. In realtà, dei segaossa del liberismo sfrenato che delle sofferenze dei pazienti se ne infischiano, salvo spargere qualche lacrimuccia, da coccodrillo, in stile Fornero. Della serie: lasciateci fare che ci pensiamo noi. E non solo non lamentatevi, ma profondetevi in entusiastici inchini. In calorosi, ma rispettosi, ringraziamenti.

L’ultimo della serie è Mario Draghi. Che nelle intenzioni della Lega dovrebbe svolgere un doppio ruolo: dapprima mettersi alla guida di un nuovo governo che prenda il posto di quello attuale e che, sulla base di larghissime intese e intorno a un programma molto specifico, traghetti la legislatura fino alle elezioni anticipate; poi, quando nel 2022 scadrà il settennato di Mattarella, salire al Quirinale ed ergersi, in maniera ancora più evidente e istituzionale, a sagace e affidabilissimo custode del nostro futuro.

L’argomento principe di questa perorazione è che Draghi gode di un ampio credito internazionale. Un riconoscimento su vasta scala che si estenderebbe all’Italia intera e che ci aiuterebbe moltissimo nella difficile riconquista delle posizioni perdute, in termini sia di rilancio economico, sia di prestigio complessivo. Un po’ come un super manager che si ponga ai vertici di un’azienda scombinata. E che, con la sua sola presenza, ne moltiplichi all’istante le chance di riscossa.

Il presupposto è che la sua storia professionale, culminata nella presidenza della BCE dal primo novembre 2011 al 31 ottobre dell’anno scorso, ne certifichi tanto la preparazione teorica, quanto l’abilità operativa nella gestione delle ricorrenti turbolenze in ambito finanziario. Non un semplice burocrate, come solitamente sono o appaiono i vertici della Commissione Europea in stile Jean-Claude Juncker, ma un risoluto stratega che non esita a dare battaglia con ogni mezzo a disposizione. Vedi l’ormai mitizzato “whatever it takes” scandito nel luglio 2012 a difesa dell’euro. E seguito da un perentorio «E credetemi, sarà abbastanza». Mercati avvisati, mezzo debellati.

L’equazione sottintesa, che ci porta al cuore del problema, è che gli interessi dell’alta finanza e quelli delle singole nazioni coincidano.

Conti in ordine, prosperità diffusa.

Ahò.

Stimatissimo e benvoluto: ma da chi?

Osserviamolo come si deve, il curriculum di Mario Draghi. Andandolo a prendere su un sito che più ufficiale non si può, visto che si tratta di quello della BCE.

Nel riepilogo, davvero considerevole per la rilevanza degli studi compiuti e degli incarichi via via ricoperti, spiccano innanzitutto tre elementi: il primo è la laurea statunitense conseguita nel 1977 con un PhD in economia al Massachusetts Institute of Technology (MIT); il secondo sono i sei anni, dal 1984 al 1990, da direttore esecutivo della Banca Mondiale; e il terzo, infine, è il triennio 2002-2005 trascorso come vicepresidente e Managing Director di Goldman Sachs International. Inoltre, in questo continuo dentro e fuori tra ruoli pubblici – o presunti tali – e privati, abbiamo i dieci anni da direttore generale del Tesoro, dal 1991 al 2001, e i cinque da governatore della Banca d’Italia, dal 2006 all’ottobre 2011.

La chiave di volta è proprio qui. Nell’entrare e nell’uscire da mondi che per ovvie ragioni, e per loro natura, non hanno affatto i medesimi scopi. Le banche perseguono obiettivi di lucro nel segno del massimo profitto, a beneficio innanzitutto degli azionisti (o per meglio dire: dei grandi azionisti) e perciò non esitano ad anteporre le proprie logiche speculative alle ripercussioni negative sulla vita dei popoli. Vedi, per citare il caso più clamoroso ma tutt’altro che eccezionale, la crisi divampata nel 2008.

Gli Stati dovrebbero muoversi in una prospettiva opposta. Ponendo limiti rigorosi non solo alle smanie di arricchimento dell’alta finanza, o degli avventurieri di Borsa, ma soprattutto alla possibilità di trasformare il controllo dei capitali in un potere di condizionamento politico.

La versione ufficiale è che questi grandissimi esperti che stanno un po’ qui e un po’ là sono talmente obiettivi e super partes da non confondere minimamente i due piani. Riuscendo quindi ad adottare, a seconda dei casi, il punto di vista dell’organizzazione che li stipendia. Funzionari pubblici integerrimi quando a ingaggiarli sono i governi. Manager spregiudicati quando a pagarli sono i colossi bancari.

Un quadretto per i gonzi.

La verità è che i cosiddetti “tecnici” sono impregnati delle medesime convinzioni, acquisite durante gli studi e acuite dalle successive carriere, e le applicano in qualsiasi contesto si trovino a lavorare. Convinzioni, semmai ci fosse bisogno di precisarlo, che hanno la loro pietra angolare nel dominio del denaro su ogni altro aspetto della vita sociale. Della vita umana.

Draghi a Palazzo Chigi, e poi al Quirinale, equivale a dare un crisma istituzionale a una dipendenza che certo esiste già, ma che così uscirebbe ulteriormente sancita. Allontanandoci ancora di più dalla direzione cui si deve puntare: rovesciare quella dipendenza, quella sottomissione, e ristabilire il primato della politica sull’economia. Tanto più se di carattere finanziario.

Una repubblica non è una banca.

Un popolo non è – non dovrebbe essere – un’assemblea di piccoli o piccolissimi azionisti che si prostrano davanti a un top manager di fama internazionale.

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