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Ecatombe di Bar e Tavola calda a Roma e provincia: in 10 anni chiusi 1.248 locali

Un’attività su quattro ha chiuso i battenti nel centro storico di Roma. Soprattutto le nuove imprese non superano la prova della concorrenza

Bar Centro storico Roma

In dieci anni hanno chiuso 1.248 bar. Ce ne sono troppi e spesso nella stessa via. Alcuni si trasformano in ristoranti. Il servizio non sempre è di qualità. Molti si improvvisano baristi e camerieri. Rischiamo un futuro in cui il caffè lo prenderemo dalle macchinette, come quelle che troviamo negli uffici aziendali e in aeroporto.

Bar, tavola calda: sembra facile ma non lo è

Un’attività su quattro ha chiuso i battenti nel centro storico. Sembra che soprattutto le nuove imprese non riescano a resistere alla prova della concorrenza. La metà dei bar che hanno aperto nel 2017 a Roma e provincia hanno chiuso o cambiato codice, diventando ristoranti e tavole calde. La Fipe Confcommercio ha lanciato un grido di allarme in occasione della fiera mondiale dedicata al mondo dell’accoglienza e della ristorazione Host.

Nel primo semestre del 2023 a Roma e Provincia erano attivi 12.615 bar. Nello stesso periodo sono state avviate 32 nuove attività ma ne sono cessate 116, con un saldo negativo di 84. Purtroppo è una tendenza che dura da diverso tempo e mostra che c’è un male evidente in questo genere di iniziative e che va corretto. Qualcuno avrà chiuso per scorrettezze gestionali. Com’è successo al bar dell’Agenzia delle Entrate all’Eur, che a marzo scorso era finito nel mirino di Striscia la Notizia perché non emetteva scontrini al consumatore. L’inviato Jimmy Ghione e un cameraman erano stati addirittura aggrediti dal gestore del bar e le conseguenze sono state drastiche.

Delle attività aperte negli ultimi 5 anni ne restano solo la metà

Il motivo di queste chiusure non è sempre nella cessazione delle attività. In molti casi si tratta di riconversioni da bar a ristorante o tavola calda, cambiando codice. Probabilmente perché la sola attività del bar non riesce a coprire i costi dell’impresa. Se si analizzano i dati della sopravvivenza delle imprese ci si accorge che in 5 anni tra quelle aperte nel 2017 ne sono rimaste in vita solo la metà. Delle attività aperte nel 2021 a fine 2022 ne erano rimaste aperte l’84,7%. Se ne deduce che in un anno 2 bar su 10 avevano già chiuso.

Nel 2012  nel centro storico funzionavano 1.021 bar e 4.433 nel resto della città, per un totale di 5.454 bar per tutta Roma. Nel 2022 i bar del centro storico sono diventati 760 e 3.446 nelle altre zone extra centro. Una mortalità eccessiva, 1.248 in dieci anni! In percentuale la moria del centro storico è del 25,5% e quella extra del 22,3%. 

Caffè Trombetta in Via Marsala, un bar storico di Roma

Le chiusure riguardano tutta l’Italia: 20 mila bar in meno in 10 anni

Questi dati non sono solo per Roma ma in linea con i dati nazionali. In dieci anni in Italia sono andati chiusi bel 20.000 bar in tutto il territorio. Quindi non. Si tratta di un fenomeno romano ma generale. Che ha a che vedere con il problema dei costi di queste aziende. Quello dei bar è un settore che vale 23 miliardi di euro, dà lavoro a oltre 300mila impiegati tra dipendenti e indipendenti. La maggior parte del personale dipendente (baristi e camerieri) è assunta con un contratto di lavoro a tempo indeterminato (59%) con un a prevalenza di soluzioni part time. Ad orario ridotto. Moltissime sono le dipendenti donne, più degli uomini, sei su dieci. Sempre nel primo semestre 2023, si contano 2.927 imprese femminili, 1.006 di giovani e 1.030 imprese straniere.

Troppi bar troppa competizione e pochi guadagni

Secondo Luciano Sbraga, direttore centro studi di Fipe Confcommercio, il motivo delle chiusure è l’eccessivo numero che determina una competizione troppo alta. Ci sono troppi bar. “Parliamo di 12.600 attività per circa 3 milioni e mezzo di persone, compresa la provincia. è un mercato, quindi, estremamente competitivo”.

Se molte attività hanno preferito trasformarsi in ristoranti è perché le entrate del bar non sono, da sole, sufficienti a coprire tutti i costi. “Nel corso degli anni c’è stata una trasformazione dei modelli di consumo. Sempre di più il bar si è spostato quasi a superare il confine che lo distingue dal ristorante” ha dichiarato Sbraga.

Lo scontrino medio di un bar è di 4 euro”. Si capisce, quindi, come sia difficilmente sostenibile un’attività con questi numeri.

Un fatturato medio basso che non copre tutte le spese

Il fatturato giornaliero medio di un bar è di circa € 340 al giorno (calcolo effettuato su una base di 6 giorni su 7) e di questi appena il 42%, quindi circa € 143, sono da imputare al consumo di caffè da parte dei clienti. Quello che si consuma al bar sono tutti prodotti a basso valore aggiunto, quindi con scontrini medio bassi. Al bar si chiede un servizio di alto livello: arredo accogliente, igiene, pulizia, rapidità, qualità. I bar sono aperti almeno sei giorni su sette e talvolta anche senza interruzione, con turni del personale, per 14 ore al giorno.

Non proprio un lavoro comodo. Se lo scontrino medio è di 4 € è ovvio che le imprese debbano cercare altre forme di ricavo e di solito si va verso un ampliamento del concetto di colazione, con l’offerta di panini, poi insalate, poi paste e secondi piatti per l’ora di pranzo e la cena. Secondo Sbraga delle 1.200 attività che hanno serrato l’attività a Roma “forse il 40% ha chiuso mentre il restante 60% è diventato altro” ma non sappiamo con che esiti.

Un servizio aperto sette giorni per 14 ore al giorno ha costi altissimi

I motivi che sono alla base del problema sono diversi. Gli aumenti dei costi dei beni di consumo, compreso il caffè, ma non solo. La frutta, le bibite, lo zucchero, la pasticceria, i prodotti che compongono il carrello delle colazioni, tutto è aumentato. L’aumento dei costi energetici: luce, gas, telefono, prodotti per la pulizia, tasse… Mantenere una attività sempre in servizio per tutte quelle ore e quei giorni alza notevolmente le spese.

Non si tratta tanto del servizio al tavolo che si fa con un cameriere. Ma delle ore di apertura e della disponibilità continua a fornire prodotti, ad un certo livello di qualità.  Oggi i caffè costano 1,20€ anche se il caffè che c’è nella tazzina costa al massimo 20 centesimi. Il resto serve a coprire tutti i costi dell’attività. Chi fa il titolare di un bar, lavora di solito come il cameriere e guadagna lo stesso stipendio, anche perché se ha un utile lo reinveste in prodotti, abbellimenti, arredi, macchine. Reggere la concorrenza non è facile.

Troppa concorrenza dei tanti bar aperti sulle strade urbane

Provate a vedere quanti bar ci sono nelle vie del centro a Roma. A volte ne contate anche di molto vicini fra loro. Le grandi imprese di ristorazione non aprono bar in ambito urbano ma solo in aree in concessione, ovvero stazioni, aeroporti e autogrill. In quei posti, che hanno canoni di locazione altissimi, il guadagno è quasi assicurato perché il flusso di gente è costante. In ambito urbano, con la deregulation, capita che lungo un marciapiede, dove transitano tante persone, ci siano tre bar o sei che fanno la stessa attività. Questa competizione alla fine, danneggia tutti.  

Sempre secondo Sbraga la pandemia e il ricorso allo smart working possono aver decretato il colpo decisivo a molte attività. Meno gente che si reca a lavoro significa meno clientela. Il consumo a casa non sarà mai sostitutivo di quello al bar. Se uno lavora in casa il caffè se lo fa con la Moka prima di scendere al bar!

Se mancano le buone maniere il cliente non tornerà

Uno dei motivi di chiusura credo sia nel fatto che molti non sono pronti per fare il gestore di bar e il cameriere o il barista.  In qualche caso la disaffezione al bar sia imputabile anche ad un problema di disservizio e poca capacità a trattare il cliente. Tutti i lavori a contatto con la gente impongono cortesia, gentilezza, tolleranza, affabilità ma anche tanta professionalità. Spesso si apre un bar e ci si improvvisa camerieri senza una preparazione specifica.

Più passa il tempo e meno esisteranno categorie di lavoro dove la qualifica professionale non conta. Neanche lo zappatore o il mozzo sul peschereccio si possono più fare senza sapere le nozioni di base, senza avere perlomeno gli strumenti basilari del mestiere. Chi apre un bar ha scelto un lavoro molto difficile, perché deve stare simpatico ai clienti.

Il barista, a differenza del cuoco, guarda in faccia il consumator e può capire le sue insoddisfazioni. Ma se non sa accettare una critica o apprezzare un complimento è meglio cambiare mestiere.

Fondamentale, per stare in un bar, è avere gentilezza e simpatia

Il bar a volte è simile a un confessionale ed il barista ha l’obbligo del segreto professionale, come il confessore. Partecipare al pettegolezzo non lo rende persona apprezzabile.

Quando si entra in un bar non ci devono essere odori o profumi che soverchino quelli propri del caffè e della pasticceria. Ogni cattivo odore allontanerà il cliente. La cura per l’igiene e la pulizia è fondamentale e non è tanto rispettata nei bar. È facile che si accumuli sporcizia per terra, con l’affluenza della gente: va portata via ogni mezzora! Un bar sporco non farà fermare l’avventore occasionale.

Anche un bar rumoroso dà fastidio. Il rumore caccia via i clienti come i cattivi odori e la sporcizia. I rumori sono quelli delle stoviglie e dei piattini quando si lavano o si ripongono nel lavandino. I sensi del cliente sono sempre in funzione: vista, olfatto e gusto ma anche il tatto. Se il bancone è sporco, il tavolino conserva macchie del passaggio del cliente precedente, se intorno non tutto è pulito, la mano del cliente lo avverte così come l’occhio e in quel bar non ci metterà più piede.

Il barista incazzato che non sorride mai è un pessimo barista. I problemi e i pensieri vanno lasciati a casa. Accogliere il cliente col sorriso non costa niente e rende tanto. Poi ci sono le accortezze minime legate al bon ton. Servire un bicchiere o un piatto col dito della mano che sfiora l’orlo della bevanda o dell’alimento diventa discriminante per un ritorno del cliente. Una tazza di caffè andrebbe sempre servita con un bicchiere d’acqua accanto, per pulirsi la bocca prima di bere. Lo zucchero o il dolcificante viene posto a disposizione del cliente e non ne viene limitata la quantità.

Forse i bar stanno cambiando formula ma ho paura che si vada peggiorando

Il bar è ancora un luogo iconico di quello stile italiano che piace così tanto a noi e ai turisti quando vengono in Italia? Erede di una lunga tradizione, quella dei caffè settecenteschi che attiravano artisti, scrittori e poeti: dal Florian di Venezia, al Gilli di Firenze, dal Caffè Greco a Roma, al Gambrinus di Napoli. Ma questi sono monumenti.

Forse la formula del bar sta cambiando. I bar all’italiana, dove mangi un cornetto e ingoi un espresso in piedi e te ne vai non sono molti all’estero. Anzi non ce ne sono. Nei bar all’estero ci si siede quasi sempre. Si viene serviti al tavolo. Magari non in tutti i paesi si trova un servizio solerte e adeguato, questo si. Ma l’attenzione verso il cliente è più alta che in Italia. Parlo dei paesi occidentali, non delle capanne o chiringuitos dove ti danno bibite a base frutta in Centro e Sud America.

I bar spesso sono nei centri commerciali, nelle piazze, lungo i boulevard, magari sono catene come Starbucks o SBG, dove ti danno 15 tipi di caffè e cioccolate facendoteli vedere in fotografia. Il servizio è algido ma efficiente. Manca il rapporto col barista perché le commesse lavorano come a una catena di montaggio. Il modello è quello dei negozi di hot dog alla McDonald o alla Burghy. Speriamo proprio di no ma se i costi continuano ad aumentare sarà inevitabile trasformare i bar i fornitori anonimi di bevande calde, come le macchinette che troviamo nelle aziende o in aeroporto.