Diritto di sciopero e responsabilità, Serbassi-Fast Confsal: anche le aziende facciano la loro parte
Nei giorni che intercorrono tra la proclamazione e l’eventuale revoca dello sciopero dovrebbe essere imposto un confronto reale, continuo, non rituale
Sciopero Generale
Prima di ogni altra considerazione, è utile distinguere piani che nel dibattito pubblico vengono spesso sovrapposti. Esistono scioperi che nascono da vertenze concrete, da problemi di lavoro, di salario, di organizzazione dei servizi e di applicazione dei contratti; ed esistono scioperi che assumono una valenza più ampia, politica o simbolica, legittimi come espressione di dissenso ma diversi, per natura e funzione, da quelli che intervengono direttamente sul rapporto di lavoro.
Tenere distinti questi livelli non significa sminuire alcuna forma di protesta, ma evitare che lo strumento dello sciopero venga caricato di aspettative improprie o ridotto a gesto puramente testimoniale, soprattutto nei servizi essenziali.
Parlare di sciopero non è un tema che crea grandi ascolti. È molto più facile contestarlo che difenderlo, più redditizio cavalcare il disagio che interrogarsi sulle cause. Lo sciopero non porta like, non porta voti, non scalda i sondaggi. Eppure, è uno di quei diritti che tutti, almeno a parole, continuano a definire “fondamentale” nelle democrazie occidentali. Un diritto riconosciuto, celebrato nei principi, ma spesso messo sotto accusa nella pratica.
Il motivo è semplice e poco raccontato: i lavoratori direttamente coinvolti dalla disciplina sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali sono stimabili in circa 7-8 milioni di persone, mentre gli italiani aventi diritto di voto sono oltre 50 milioni. Una minoranza numericamente rilevante sul piano economico e sociale, ma politicamente fragile quando il conflitto si traduce in disagio collettivo.
Da qui nasce un paradosso tutto italiano: lo sciopero è legittimo finché resta astratto, ma diventa fastidioso quando incide sulla vita quotidiana. Ed è su questo terreno che si inserisce il dibattito riacceso dall’intervento di Pietro Ichino sul Foglio a difesa dell’emendamento poi ritirato in materia di scioperi nei servizi essenziali.
Un dibattito serio, che ha il merito di ricordare una verità spesso rimossa: nei trasporti, nella sanità, nei servizi pubblici, lo sciopero non è mai un fatto privato tra azienda e lavoratori, ma un evento che incide su diritti collettivi dei cittadini. Da questo punto di vista, sostenere che lo sciopero debba essere regolato, limitato e reso prevedibile non è un’eresia, né una posizione ideologica. È una tesi che anche molti sindacati possono condividere.
Il problema nasce quando la regolazione del conflitto diventa asimmetrica. Perché se è vero che nei servizi essenziali lo sciopero deve essere sottoposto a regole stringenti, è altrettanto vero che la responsabilità del conflitto non può gravare solo su chi lo proclama.
Un sistema equilibrato non si limita a contenere l’effetto dello sciopero, ma lavora per prevenirlo, intervenendo sulle cause che lo rendono inevitabile. E qui la distanza tra la teoria e la realtà dei luoghi di lavoro diventa decisiva.
Nel nostro ordinamento, la legge 146 del 1990 e successive modifiche, disciplina con precisione obblighi, preavvisi, fasce di garanzia e procedure di raffreddamento che sono la fase negoziale da sostenere fra la dichiarazione di sciopero e l’effettuazione dello sciopero stesso.
Ma accanto a questi vincoli per lavoratori e sindacati, non esiste un meccanismo altrettanto efficace che obblighi le aziende a rispettare tempestivamente e correttamente gli accordi contrattuali che regolano la vita quotidiana del personale. È una contraddizione strutturale che alimenta la conflittualità invece di ridurla.
Il caso della società del trasporto regionale dell’Emilia-Romagna, TPER, è emblematico non perché rappresenti un’eccezione clamorosa, ma perché fotografa una normalità problematica. Qui non si discute di scioperi in atto, ma di questioni apparentemente tecniche: ferie, riposi, tempi di recupero, programmazione dei turni.
Materia contrattuale chiara, ma fonte costante di segnalazioni per prassi difformi, conteggi non omogenei e una gestione che, secondo molti lavoratori, finisce per trasformare un diritto contrattuale in qualcosa che va richiesto, sollecitato, talvolta rivendicato individualmente. È in queste crepe, più che negli scontri ideologici, che matura il conflitto sindacale.
Chi sostiene che l’ordinamento disponga già di anticorpi sufficienti richiama spesso l’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, quello che punisce la condotta antisindacale dei datori di lavoro, come rimedio universale. Ma l’articolo 28 interviene quando il danno è già fatto, quando il conflitto è esploso, quando il rapporto tra le parti è già deteriorato.
Non è uno strumento di prevenzione, né può sostituire un sistema che obblighi le parti a confrontarsi seriamente prima di arrivare allo sciopero. Pensare che basti una tutela giudiziaria ex post per compensare obblighi preventivi sempre più stringenti a carico dei lavoratori significa sottovalutare le asimmetrie reali di potere presenti nel rapporto di lavoro, soprattutto nei settori esternalizzati e nei servizi pubblici locali.
Se davvero si vuole rendere lo sciopero nei servizi essenziali un evento raro, responsabile e credibile, la strada non è quella di trasformarlo in un atto amministrato e innocuo, ma quella di rafforzare la fase che lo precede. Nei giorni che intercorrono tra la proclamazione e l’eventuale revoca dello sciopero dovrebbe essere imposto un confronto reale, continuo, non rituale.
Un confronto in cui anche l’inerzia aziendale abbia un costo, e in cui la Commissione di Garanzia non sia solo un notaio delle regole, ma un soggetto capace di intervenire quando emergono violazioni contrattuali accertate che alimentano il conflitto. Limitare lo sciopero senza limitare gli abusi che lo generano è una scorciatoia.
Può funzionare sul piano mediatico, ma non regge nel tempo. La vera modernizzazione delle relazioni industriali passa da una responsabilità condivisa: regole certe per chi sciopera, ma anche obblighi stringenti per chi gestisce i servizi. Solo così lo sciopero può tornare a essere ciò che dovrebbe essere: non un fastidio da contenere, ma l’ultima ratio di un sistema che ha davvero provato, prima, a funzionare.
Pietro Serbassi, segretario generale Fast Confsal
