Dializzati come “merce”, il caso Palumbo a Roma e la ferita aperta nella sanità pubblica
Caso Palumbo al Sant’Eugenio: dialisi dirottate verso cliniche private secondo l’accusa. A Roma si riapre il tema di fiducia, controlli e diritti dei pazienti più fragili
Roma, via Cristoforo Colombo, una sera di dicembre. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, un primario stimato, Roberto Palumbo, responsabile di Nefrologia e Dialisi al Sant’Eugenio, riceve in auto una busta con 3mila euro da un imprenditore del settore dialisi. Poco dopo, interviene la Squadra Mobile e scatta l’arresto per corruzione.
Per chi vive in città e conosce quel grande ospedale all’Eur, punto di riferimento per migliaia di pazienti, l’immagine è potente: un medico che fino al giorno prima dava sicurezza diventa, nel giro di poche ore, protagonista di una vicenda che rimette al centro una domanda scomoda. Quanto sono davvero protetti, a Roma, i malati che dipendono dalla dialisi per vivere?
Caso Palumbo a Roma: come funzionava il “giro” dei dializzati secondo l’accusa
Negli atti dell’indagine si parla di un meccanismo che avrebbe trasformato i pazienti in numeri da spostare verso una struttura o verso un’altra in base a interessi economici, non solo a valutazioni cliniche. Stando alle accuse, il primario avrebbe orientato la destinazione dei malati dimessi dal Sant’Eugenio verso cliniche private convenzionate considerate “amiche”, ricevendo in cambio denaro e altri benefici: carte di credito da utilizzare in ristoranti e alberghi, pagamento dell’affitto di un appartamento in centro, un’auto di livello superiore in leasing, partecipazioni societarie e incarichi per la compagna.
L’imprenditore Maurizio Terra, amministratore di una società attiva nel settore dialisi, è finito ai domiciliari, mentre per il medico il gip ha disposto la stessa misura dopo un passaggio in carcere. L’inchiesta, condotta dalla sezione anticorruzione della Squadra Mobile e coordinata dalla Procura di Roma, coinvolge complessivamente 12 persone.
Secondo un imprenditore che ha deciso di denunciare, il prezzo per ciascun paziente indirizzato verso la sua struttura sarebbe stato di 3mila euro, per un totale di centinaia di migliaia di euro in pochi anni. I dializzati diventano così, nelle carte, l’oggetto di un calcolo: per ogni malato, una cifra.
La routine di chi fa dialisi a Roma e quanto pesa la parola del medico
Per capire la portata di una vicenda del genere, basta guardare alla vita quotidiana di chi è legato alla dialisi. A Roma ci sono persone che, tre volte alla settimana, organizzano tutto intorno a quelle ore di trattamento: orari di lavoro, spostamenti con i mezzi, cura dei figli o dei genitori anziani. C’è chi esce da casa all’alba per raggiungere una struttura, chi rientra stremato la sera dopo ore in sala.
Quando viene dimesso da un reparto ospedaliero, il paziente cerca una cosa sopra tutte: continuità assistenziale. In quel momento, la sua capacità di valutare l’offerta presente sul territorio è molto limitata. Non è semplice confrontare da soli qualità del servizio, distanza, presenza di personale, eventuali criticità. La parola di chi ha in mano la cartella clinica – il primario, il medico del reparto – pesa moltissimo.
Se quel suggerimento è condizionato da interessi personali, il malato perde il suo principale baluardo di tutela. È questo l’aspetto che colpisce molti romani leggendo le cronache sul Sant’Eugenio: l’idea che chi dovrebbe farsi carico della fragilità altrui possa avere, secondo l’accusa, un tornaconto economico nel consigliare una struttura e non un’altra.
Sanità pubblica romana: linee di confine fragili fra corsie e cliniche private
La Capitale vive da anni in un equilibrio complesso fra ospedali pubblici e privato accreditato. Sulle cronicità, come l’insufficienza renale, il ruolo delle cliniche convenzionate con il Servizio sanitario nazionale è fondamentale: senza di loro la rete non reggerebbe. Il problema nasce quando il rapporto si sposta da collaborazione controllata a terreno di opacità.
Se chi decide dove inviare i pazienti ha un potere quasi esclusivo e, allo stesso tempo, può coltivare rapporti economici con una parte dei destinatari, il rischio di degenerazione aumenta. Per la città, il caso Palumbo non è solo la storia di un singolo medico. È un campanello d’allarme su come viene gestito ogni passaggio che va dal letto d’ospedale alla poltrona del centro dialisi di quartiere.
Chi controlla i flussi? Chi verifica che le assegnazioni siano equilibrate e motivate? Esistono sistemi informatici che permettono di ricostruire la catena delle decisioni, oppure tutto resta affidato a valutazioni difficili da contestare dall’esterno?
Cosa può fare Roma per prevenire nuovi casi: controlli, dati aperti, scelta consapevole
Le possibili risposte non mancano. La prima riguarda i controlli interni: ogni Asl dovrebbe monitorare con attenzione i numeri relativi agli invii verso i vari centri dialisi, cercando eventuali concentrazioni anomale. Un reparto che indirizza in modo costante una quota altissima dei pazienti verso una sola struttura convenzionata merita verifiche approfondite, a prescindere da sospetti penali. A fianco di questo, Roma può diventare un laboratorio di trasparenza sui dati sanitari.
Rendere pubblici, in forma aggregata e rispettosa della privacy, i flussi di pazienti verso i centri convenzionati, i livelli di occupazione, gli standard di personale, aiuterebbe non solo gli organi di controllo, ma anche i cittadini a orientarsi meglio. Il paziente dovrebbe poi essere messo nelle condizioni di fare una scelta informata.
Non basta consegnare un foglio con il nome del centro consigliato. Servono informazioni chiare su tutte le strutture disponibili nell’area di residenza, su come raggiungerle, su eventuali servizi aggiuntivi, su cosa cambia nella vita quotidiana scegliendo una sede piuttosto che un’altra. Sportelli dedicati, non dipendenti direttamente dai singoli reparti, potrebbero affiancare i malati e le famiglie nei giorni delicati della dimissione.
Medici, infermieri e cittadini: come ricucire il rapporto dopo il caso Palumbo
Dietro i titoli sulle mazzette e sulle carte di credito ci sono, ogni giorno, professionisti che lavorano in condizioni spesso complicate, in reparti sovraccarichi, con turni impegnativi. È importante ricordarlo per evitare che l’immagine della sanità romana venga ridotta a poche vicende giudiziarie. Proprio per questo, però, i casi di corruzione vanno affrontati con fermezza. Difendere chi opera correttamente significa isolare chi utilizza il ruolo pubblico per ottenere vantaggi privati.
Per ricucire il rapporto fra cittadini e sistema sanitario servono scelte nette: sospensioni immediate dagli incarichi in presenza di accuse così gravi, collaborazione piena con la magistratura, revisione delle procedure nei reparti più esposti a possibili condizionamenti economici. Al tempo stesso, è fondamentale aprire spazi di ascolto per i pazienti, incoraggiando le segnalazioni di anomalie e garantendo protezione a chi denuncia. Il messaggio che Roma può dare, dopo il caso Palumbo, è che nessuno può sentirsi proprietario dei pazienti, del loro destino terapeutico, dei fondi che lo Stato e la Regione destinano alla loro cura.
Una occasione per cambiare davvero la sanità nella Capitale
In questi giorni il nome del Sant’Eugenio è associato ai video delle perquisizioni e alle cronache giudiziarie. Ma quell’ospedale resta una delle colonne della sanità romana. Il modo in cui verrà gestita questa vicenda dirà molto sul futuro del sistema in città. Si può scegliere di considerare tutto come una parentesi, aspettando l’esito dei processi e confidando che, nel frattempo, nulla di simile accada altrove.
Oppure si può cogliere l’occasione per ridisegnare i percorsi di presa in carico dei pazienti cronici, separare in modo più netto le funzioni cliniche da quelle organizzative, aprire davvero i dati di cui la macchina sanitaria dispone. I cittadini romani, soprattutto quelli che vivono la dialisi come compagna forzata di ogni settimana, hanno diritto a sapere che chi decide per loro lo fa senza alcun interesse personale. Il caso Palumbo ha mostrato cosa succede quando quel patto si incrina. Ora spetta alle istituzioni, agli ordini professionali e a chi lavora in corsia dimostrare che la sanità pubblica della Capitale è capace di curare anche le proprie ferite, non solo quelle dei pazienti.
