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Claudio Magris: la precisione del cannocchiale

Claudio Magris si impone oggi tra gli intellettuali viventi. “Danubio”: il suo libro di cui l’Europa del domani avrà bisogno

Claudio Magris

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Claudio Magris: la precisione del cannocchiale

Tra gli intellettuali e scrittori italiani viventi, Claudio Magris (Trieste, 1939) è, forse, dal punto di vista della solidità e della sicurezza dell’operazione critica e letteraria, quello che maggiormente si impone come degno di attenzione. Ora che non solo Umberto Eco e Guido Ceronetti, ma anche Alberto Arbasino, appartengono alla dimensione dell’eterno. C’è, nel suo pensiero e nel suo modo di guardare alla letteratura, qualcosa che riguarda la precisione del cannocchiale.

Leggerezza e profondità

Da una parte ci sono i suoi importanti studi sulla letteratura della Mitteleuropa e menzionerei “L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna” (1984, Einaudi) come quello più avanzato e degno di attenzione, per la profondità e la radicalità dei risultati raggiunti.

Dall’altra, ci sono i libri in cui Magris si impegna come scrittore in proprio, e meritano di essere ricordati, come particolarmente felici, “Microcosmi” (1997, Garzanti) e il relativamente recente “Non luogo a procedere” (2015, Garzanti).  

Danubio, il libro per il futuro europeo

Ma se c’è un libro che è veramente quello più suo, che, con maggiore felicità e profondità, ne sintetizza l’opera e che consegnerà il suo nome alle future generazioni, esso è “Danubio” (1986, Garzanti). Libro di viaggio, di poesia, di critica letteraria. Libro di sintesi sulla Mitteleuropa, che a quella tradizione appartiene, così come Eugenio Garin disse della “Civiltà del Rinascimento in Italia” (1860) di Burckhardt, ossia che era l’ultimo libro della cultura rinascimentale, più che la sua prima sintesi critica.      

Claudio Magris, in viaggio sull’abisso

Così, per quasi cinquecento pagine, siamo trasportati a navigare e vivere sul Danubio, imparando la grande lezione della Mitteleuropa: l’incertezza sulle proprie radici, sulla propria identità, quel pericoloso senso di sradicamento, che ha reso la cultura mitteleuropea la punta più avanzata della coscienza della crisi europea. Una sensazione che confina con il mal di mare. 

E se fu Nietzsche il primo profeta del nuovo mondo, furono legioni i personaggi di prima grandezza che lo seguirono e che interpretarono il senso del naufragio, spirituale ma non solo, del vecchio continente.

Dal giovane Thomas Mann a Freud, da Arthur Schnitzler a Karl Kraus, da Adolf Loos a Peter Altenberg, da Ludwig Wittgenstein a Joseph Roth (cui Magris ha dedicato un’importante monografia), da Robert Musil fino a Elias Canetti e, in Italia, a Svevo e all’amico di Montale, Roberto Bazlen. Per non parlare di due giganti come Franz Kafka e Rainer Maria Rilke. 

L’Europa sperimentò questo momento di crisi drammatica, che ha tante importanti testimonianze anche nelle arti figurative (si pensi ad artisti come Van Gogh o ad opere notissime come “L’urlo” di E. Munch o “Guernica” di Picasso), soprattutto tra le due Guerre mondiali. Ma era stato Nietzsche ad accorgersi del tracollo con la diagnosi della morte di Dio. Per non parlare del fatto che, cinquant’anni prima di Nietzsche, nella prima metà dell’Ottocento, personaggi come Goethe e Hegel, Hölderlin e Schopenhauer, ma anche il nostro Leopardi, erano perfettamente consapevoli della difficoltà della situazione. 

Ironia e riserbo

Se questa coscienza della crisi radicale dei fondamenti, identitari, valoriali, di civiltà, è stata la massima conquista della Mitteleuropa da un punto di vista che è possibile definire gnoseologico e metafisico (come, a proposito di Schopenhauer, suona il titolo della tesi di laurea del sottoscritto), altre importanti conseguenze discendono sul piano etico e politico.

Dal punto di vista etico, ne risulta un atteggiamento di asciuttezza e sobrietà, che è tutto austriaco, anche quando, come nel caso di Karl Kraus, la denuncia si fa urlo. Come ci insegnano anche gli inglesi, là dove c’è asciuttezza, sobrietà, la capacità di guardare il dramma negli occhi, lì c’è anche ironia. La capacità di ridere e sorridere di tutto, innanzitutto di sé stessi. È una lezione di fermezza che può tornare utile in qualsiasi momento della vita e della storia umana.

Un messaggio di apertura

Dal punto di vista politico, la lezione della Mitteleuropa – così profondamente intrisa di ebraismo – è un antidoto in un’epoca di malcelati, e rozzi, sovranismi. La vita dei popoli è crogiolo (“melting pot”), mescolanza. Le migrazioni sono l’essenza della storia umana. Tutto ciò, nell’impero austroungarico era tollerato, per non dire favorito. Non c’era un’idea di superiorità di un ceppo etnico sugli altri, nemmeno di quello austriaco, parlante tedesco. 

Di questa grande lezione di civiltà – che si articola nei tre momenti dello sradicamento esistenziale e della sensibilità per la poesia, di un’etica del riserbo e della fermezza, e di un’idea della politica aperta, plurale e tollerante – “Danubio” di Magris è profondamente intessuto. Ecco perché l’Europa del domani avrà ancora bisogno di questo libro. 

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