Cari under 16, basta social. L’Australia dà la linea. Lo faremo anche noi?
La legge australiana non è sicuramente un toccasana, ma almeno ha il merito di uscire dall’immobilismo e provarci
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Critiche? Tante. Alternative proposte? Nessuna. In Australia diventa operativa la legge approvata a fine 2024, con cui si impone alle piattaforme online come ad esempio Facebook, Instagram e TikTok di verificare che gli utenti abbiano almeno 16 anni, e fioccano le perplessità.
Social vietati agli under 16, sono nocivi
Eh, ma il divieto si può aggirare: basta una vpn. Oppure è sufficiente l’appoggio dei genitori, o di un qualunque altro adulto, per attivare un account fittizio che poi utilizzeranno i minorenni di turno.
Eh, ma la norma è discutibile in sé, per come incide sulle scelte personali, e anche di dubbia efficacia, perché potrebbe spingere a cercare/trovare opzioni ancora più insidiose.
Guarda caso, queste ultime sono proprio le argomentazioni – non esattamente disinteressate – dei gestori colpiti dalle restrizioni. Come scrive Enrico Franceschini su Repubblica “Le aziende digitali affermano che [le disposizioni] limitano la libertà di espressione, che costituiscono un’interferenza nella privacy, che sarà difficile farle rispettare e avranno il solo effetto di dirottare i più giovani sul dark web, l’internet illegale, senza controlli di alcun genere, con effetti ben più pericolosi per la psiche”.
Un classico: gli ideali sono elevati, le applicazioni pratiche non lo sono affatto. In nome di ciò che è giusto in linea di principio (ma forse sarebbe meglio dire “in astratto”) si rinuncia a intervenire sulle conseguenze negative che derivano dall’inerzia. Sprofondando in un altro tipico paradosso delle pensose democrazie occidentali: siccome il fenomeno, benché deteriore, è ormai planetario e dilagante, lo si considera un dato di fatto. Che in quanto tale è impossibile da rimuovere.
Quei comportamenti saranno anche deprecabili, certo, ma che ci si può fare?
Mica vorremo tornare alla censura?
Addestrati al peggio
Sono scappatoie ridicole. E vigliacche.
Ammesso che non scaturiscano da una deliberata connivenza con le imprese che lucrano sull’istupidimento online – nonché sull’uso dei “big data” e delle informazioni individuali, a scopi sia di marketing, sia di altre forme di condizionamento – restano comunque sbagliate. E tanto più subdole perché ammantano di motivazioni altisonanti la colpevole rinuncia ad agire.
L’approccio, al contrario, andrebbe ampliato, estendendolo ben al di là degli under 16 e dei social finiti nel mirino della legge australiana.
La vera questione, la vera chiave di volta, è infatti l’immane spinta alle gratificazioni dozzinali ed egocentriche esercitata senza posa dal sistema mediatico nel suo insieme. Una suggestione che si ripete, rinforzandosi all’ennesima potenza, attraverso innumerevoli messaggi. Espliciti e impliciti. Apparentemente circoscritti, come possono esserlo gli spot che pubblicizzano un singolo prodotto, ma in realtà complessivi, per i modelli che veicolano e che un po’ per volta si affermano come degli stili di vita a 360 gradi.
Non solo attraenti ma del tutto legittimi. Pienamente leciti, universalmente accettati, infinitamente desiderabili.
Appunto: se lo desideri, compralo. Se non puoi permetterti l’originale, o la versione più costosa, ripiega sui succedanei. E se non vuoi spendere neanche un soldo, affermati in altro modo.
Invece di acquistare quello che c’è nelle vetrine, materiali o immateriali, metti in vetrina te stesso. Semplice, no? Un account, un clic, qualcosa che hai fatto tu o il commento a quello che hanno pubblicato gli altri.
Mostra i tuoi aspetti migliori, se li hai. Oppure esibisci quelli peggiori, sfruttando l’anonimato dei nickname.
Tranquillo: lo fanno miliardi di persone. Di qualsiasi età. Nell’immensa zona grigia tra ciò che è soltanto puerile e ciò che è obiettivamente illegale c’è spazio per tutti.
No, il degrado non è solo online
È la mancanza di questo ripensamento, il nocciolo del problema. Una mancanza che nelle condizioni attuali diventa impossibilità, perché il cambiamento dovrebbe arrivare proprio dai grandi media che prosperano su questo stato di cose.
Non c’è bisogno di scoprire niente. Ma solo di ricordarlo. La logica del marketing va in direzione opposta: i fatturati si fanno con ciò che si vende, e le vendite aumentano facendo leva sui gusti, sulle propensioni, sulle debolezze, di quante più persone possibile.
E visto che la bonifica non può venire, ovviamente, da chi ha il profitto come unico e sommo criterio di valutazione, va da sé che spetti alla politica occuparsene.
La legge australiana non è sicuramente un toccasana, come d’altronde non può esserlo nessuna misura particolare che non rientri in una strategia generale, ma ha il merito di uscire dall’immobilismo.
La ministra delle Comunicazioni, Anika Wells, è consapevole del fatto che vi saranno delle difficoltà applicative e che comunque gli effetti corrisponderanno solo in parte alle buone intenzioni. Ma non per questo demorde. Va dritta al punto e dice «Che la nostra legge funzioni bene o no, almeno stiamo facendo qualcosa. L’unica certezza è che i social possono gravemente danneggiare i più giovani. Non fare niente non è la soluzione».
Corretto.
La conclusione da trarre non è che l’iniziativa, essendo imperfetta e parziale, sia da liquidare come inutile o addirittura nociva. Ma che essa, proprio perché imperfetta e parziale, deve costituire un primo passo verso una rigenerazione di ben più vasta portata. Affrontando la natura dei contenuti diffusi, online e altrove, dagli editori spregiudicati che non esitano a speculare sull’ingordigia psichica degli utenti addomesticati a puntino. Stressati dalla vita quotidiana e quindi a caccia, perennemente, di emozioni facili e prefabbricate.
Anche in quest’ambito – anzi: più che mai in quest’ambito che influisce in maniera così forte e insinuante su ciò che i cittadini sentono, pensano e fanno – la favoletta del mercato che si autoregola va rigettata senza esitare. Smascherandola per quella colossale menzogna che in effetti è: la libertà d’impresa è giusta e persino lodevole, ma a patto che non confligga con i valori fondanti su cui le nazioni scelgono di incardinarsi.
All’anatema dello “Stato etico”, presentato come la intollerabile intrusione nelle libertà personali, va contrapposta la denuncia del “marketing immorale”.
E a chi liquida l’iniziativa australiana dicendo che “non basta”, bisogna replicare che “non basta” e “non serve” non sono affatto sinonimi.
Già: un divieto specifico non basta a risolvere tutto. Ma serve a rimarcare che quelle soluzioni vanno trovate.
Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia
