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Autostrade: un colossale NO all’ipotesi di una maxi multa che salvi i Benetton

Per ora sono solo indiscrezioni, ma vanno subito rigettate. Come ha fatto, giustamente, il ministro Patuanelli del M5S

Si può sempre risolvere tutto con una trattativa a tavolino? È sempre e solo una questione di soldi, per cui si discute un po’ e si arriva a una transazione di quelle che tecnicamente vengono definite stragiudiziali? Ma che in effetti andrebbero etichettate con un aggettivo più spiccio: commerciali. O mercantili.

La risposta è no. Un NO a caratteri cubitali. Non solo da stampare sulle pagine dei giornali o da esibire nei titoli dei tg o sui siti online, ma da scolpire nella coscienza collettiva. Senza la benché minima paura delle prevedibili, immancabili, accuse di retorica. O di moralismo.

Il punto chiave, anche se ormai lo si afferma quasi esclusivamente a proposito dei cosiddetti diritti civili e degli ancor più cosiddetti migranti, è che ci sono dei valori che non sono negoziabili. E la reazione dello Stato alla tragedia del ponte Morandi ci rientra appieno. Perché sono rimaste uccise decine di persone. E perché il crollo non era affatto imprevedibile. Essendo invece imputabile alla società che lo gestiva in regime di concessione, dopo averlo ottenuto – insieme a tantissime altre tratte autostradali, che oggi assommano a un totale di ben 3.020 chilometri – nell’ambito delle massicce e scandalose privatizzazioni attuate a partire dai primi anni Novanta.

Riguardo alle quali una decina di anni fa, sul Corriere della Sera, un commentatore del calibro di Sergio Romano riconobbe che “non c’è privatizza­zione italiana degli anni se­guenti [all’incontro-summit del 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia] in cui la finanza an­glo-americana non abbia svolto un ruolo importante”.

Ma restiamo sul caso specifico. Sulle colpe di chi non ha garantito la sicurezza di ciò che gli era stato affidato. Già: affidato. Poiché di questo si tratta, in tema di concessioni, e non si deve scordarselo mai. Beni pubblici che vengono assegnati a dei privati, ma che restano destinati a un interesse collettivo. Il quale è di per sé prioritario rispetto ai profitti aziendali.

Per il ponte Morandi, viceversa, si sono ignorati i segnali di allarme e omessi i necessari interventi di manutenzione. Scaricando tutte la responsabilità sugli stipendiati di livello più o meno elevato.

In una recentissima intervista, l’ad Roberto Tomasi lo ha ribadito. Imbeccato da una domanda ad hoc, ossia perfetta per introdurre la risposta auto assolutoria, ha preso la palla al balzo.

“Che cosa ha provato – gli chiede Fabio Savelli – quando ha scoperto che alcuni report erano falsificati per risparmiare sulla manutenzione?”

Sono rimasto sconcertato – replica il supermanager – E per questo sono stati rimossi immediatamente i dipendenti infedeli. Senza attendere le sentenze della magistratura, al cui operato guardo con grande rispetto e massima fiducia, ma sulla base della violazione del codice etico della nostra azienda.”

A posto così, per lui. I vertici non ne sapevano niente e sono stati traditi dai collaboratori. Che infatti sono stati prontamente espulsi.

A posto così, per noi?

Neanche un po’.

Maxi multa? Non può bastare

Di cifre non si parla ancora, al momento. Ma va da sé che non potrà trattarsi di importi troppo elevati, visto che nella succitata intervista lo stesso Tomasi si è appellato al rischio di fallimento in caso di revoca della concessione, poiché “abbiamo linee di credito aperte per 10,5 miliardi”. Ergo, vai con le lamentazioni sui contraccolpi, occupazionali e non solo.

Si sorvola sugli interessi dei proprietari (“Autostrade per l’Italia” fa capo ad Atlantia, la cui quota di controllo, pari al 30,25, è detenuta dai Benetton) e si mette l’accento su quelli dei lavoratori e degli azionisti di piccolo cabotaggio, paventando “gravi conseguenze anche per decine di migliaia di risparmiatori, oltre che per 7mila dipendenti diretti e per i lavoratori nell’indotto».

L’intenzione, perciò, è di confrontarsi con il governo “per evitare che sia distrutto un patrimonio industriale del Paese. Serve un accordo che coniughi l’interesse pubblico, i diritti di chi fa impresa e le regole dello Stato di diritto. Un accordo di questo tipo è possibile e doveroso, nell’interesse dei 7 mila lavoratori, degli stakeholders e di tutti gli italiani”.

Il famigerato “too big to fail”, in pratica. L’idea, o la pretesa, che le imprese di maggiori dimensioni vadano salvate sempre e comunque. Perché, appunto, sono “troppo grandi per fallire”.

Ed ecco, quindi, le indiscrezioni provenienti da Palazzo Chigi. Che però vanno a cozzare con la posizione del ministro per lo Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli. Come riportato dal Fatto Quotidiano, poche ore prima che l’ipotesi iniziasse a circolare l’esponente del M5S si era espresso in maniera molto netta durante la registrazione di Porta a Porta: “C’è una sensazione di insicurezza che dobbiamo togliere. La revoca? Certo che questo è il risultato che dobbiamo ottenere. Vedremo quello che c’è da pagare ma non bisogna dimenticare che nel crollo del ponte Morandi sono morte 43 persone”.

Un tributo di sangue e di sofferenze che non merita affatto di essere liquidato in chiave meramente economica. O ragionieristica.

Almeno in alcuni casi eccezionali, ossia di eccezionale gravità, le valutazioni contabili vanno messe da parte senza esitare. Per lasciare il posto a misure drastiche.

Esemplare il comportamento delittuoso. Esemplare la punizione.

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