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Addio a Giampiero Rubei, addio a un maestro

Il ricordo di chi ha lavorato con Giampiero e oggi ne piange la scomparsa. Un pezzo di Emanuele Merlino

È morto Giampiero Rubei. Senza di lui non ci sarebbero stati il jazz a Roma, l’Alexander Platz, Villa Celimontana, il rilancio della Casa del Jazz e mille e mille e mille altre iniziative di cultura Alta, ricca, feconda. Vera.

“Non ci sarebbe stato il jazz a Roma”. Forse non ci rendiamo conto di che cosa di enorme Giampiero abbia donato a Roma. Piangono i musicisti, gli appassionati, i “suoi” – perché Giampiero mai ha nascosto la propria visione del mondo e nonostante questo tutto ha costruito e tutto ha realizzato.

Piango anche io. Ho avuto l’onore di lavorare per lui. Di lavorare con lui. Il mio datore di lavoro mi aveva detto: “Emanuele ti voglio mettere alla prova: dovrai lavorare con Rubei. È il numero uno ma è anche molto difficile”. Ma poi, invece, fu tutto molto semplice. Se lavoravi sodo e le serate venivano bene, Giampiero era sorridente e divertente. Ma quella prima volta non ci fu bisogno di relazionarsi troppo. “Emanuele io conosco tuo padre e tu mi sei simpatico. Vedi di non fare cazzate e tutto andrà bene. Soprattutto vedi di chiamarmi Giampiero e non sig. Rubei!”.

Quando rispetto molto una persona tendo a darle del lei. Ma con Giampiero sarebbe stato impossibile. Dopo il terzo “lei” mi avrebbe preso a pugni. Da quel primo, facile, lavoro nacque "Biblioteche sonore". Insomma il primo impatto era stato buono. Anche perché in realtà non fummo molto a contatto. Ora toccava provare a lavorarci “da privato”. Volevo fare il salto di qualità.

Era una giornata primaverile. Faceva caldo ed ero nervoso. Casa del Jazz non è un posto qualsiasi e confrontarmi con Giampiero mi metteva in agitazione. Un giovane “operatore culturale” con velleità teatrali di fronte ad un mostro sacro. L’appuntamento durò circa 3 ore. Fu un colloquio. Su tutto. Lui e il suo inseparabile amico e sodale Carlo Carocci – l’anno dopo per ringraziarlo andai a donare il sangue per Carlo. Carlo che, pianto e rimpianto, se n’è andato due mesi fa. Sempre insieme anche dall’altra parte – non solo mi fecero ottomila domande sul progetto “L’Unità d’Italia in Jazz” ma anche su chi fossi, cosa sapessi fare, i miei sogni.

Giampiero più di una volta mi chiese “che ne pensi di questa mia idea?” e alla mia risposta “Giampiero ma come posso giudicare io una idea tua?” rispondeva insultandomi, tra le risate bonarie di Carlo, che il futuro doveva essere dei giovani – ovviamente ricomprendendo se stesso tra essi – e che se non ci fossimo aperti la strada da soli nessuno l’avrebbe fatto per noi. Dopo due ore finalmente parlammo del progetto e, dopo avermi aiutato a migliorarlo, lo approvò.

Uscito da Casa del Jazz avevo le lacrime agli occhi. Mille altre volte ci incontrammo – “Emanuè passa a Casa del Jazz che ci facciamo due chiacchiere” – e ogni volta si parlava di politiche culturali e di cosa sarebbe servito a Roma per rilanciarsi come capitale della Cultura. Era appena uscito un cd jazz e Giampiero l’aveva sulla scrivania. Gli chiedo “Ti piace?” “Mah… non venderà una copia”. Nel frattempo con Carlo ci siamo messi a commentare chissà cosa fino a che non mi ha detto: “Emanuele ma che ti credi? Guarda che Giampiero non capisce niente di musica”. Mi veniva da ridere: “Ma che dici? Dopo tutto quello che ha, avete, fatto?!”. Carlo e Giampiero si guardano e mi sorridono, prendendomi in giro ovviamente.

Fino a che Giampiero: “Emanuele io non sono un artista. Sono un manager culturale. Non ci capisco nulla di musica – più o meno va – ma ti so dire esattamente quanti biglietti venderanno tutti i prossimi concerti qui alla Casa del Jazz. Se organizzi un evento e vai in perdita economica sei finito. Devi organizzare mille concerti. Guadagnare almeno un po’ permetterà, poi, di produrne uno a cui davvero tieni. Anche se poi va in perdita. Celine, Pound sono spettacoli con cui ho perso. Ma me lo potevo permettere e, almeno un po’, qualcosa alla causa ho portato. Ricordatelo. Chi gestisce Cultura deve saper immaginare ma anche far di conto. Chi parla e basta porterà allo sfascio. Chi sa solo far di conto al massimo farà l’ultimo dei segretari. Pensiero e Azione. Sogno e realtà”. E poi, visto che si era sentito “troppo serio”: “Potrebbe essere il titolo di una pessima serata tolkeniana!”. 

Quell’estate mi produsse tre spettacoli per Villa Celimontana. E mi pagò molto, molto bene – qualcuno forse sarà sorpreso. Solo dopo ho capito il perché: “Se un giorno diventi famoso poi ti chiamo a lavorare gratis. Me lo dovrai e verrai felicemente a farlo. Ci guadagnerò in ogni caso”. Come dargli torto. L’ultima sera lo presi da parte e lo ringraziai. “Emanuè vedi che non hai capito nulla? Tu mi sei simpatico ma pensi che ti avrei fatto lavorare se non fossi stato convinto che avresti fatto un buon lavoro? Sei un amico ma se non avessi saputo lavorare, al massimo qui saresti entrato  con un biglietto scontato. Quindi niente “grazie”. È stato lavoro. Lo sarà ancora. Non ti arrendere mai.”

Ne abbiamo fatte altre, di cose insieme. Ogni progetto fatto e vinto te lo raccontavo perché sei stato il primo a darmi una possibilità fra i grandi. 

Ciao Giampiè. Ogni volta che una nota suonerà jazz a Roma qualcuno ti ricorderà. Ogni volta che mi capiterà di fare qualcosa di artistico continuerò a pensare “chissà se Giampiero avrebbe approvato”.

Addio Maestro.
Roma ti piange.
Io di più.

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