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Superman è nato in Egitto

Il libro di Franco Palmieri

'Superman è nato in Egitto', almeno stando agli intendimenti dello scrittore Franco Palmieri.

Sarà, ma un romanzo dal titolo così immaginifico poteva essere edito solo a Roma, la città dell’ironia e dello sberleffo che nei suoi lunghi millenni di storia ne ha fatte – e viste – di tutti i colori. Va detto subito, però, che il contenuto del libro è tutt’altro che irriverente; tuttavia, già dal plot ci si rende conto che l’opera è alquanto, come dire, “insolita”.

Innanzitutto la vicenda è incentrata sulla vita di un tal Bruno, un giovane ebreo nato nel ghetto di Roma alla fine del secondo conflitto mondiale. Di lui ci resta soltanto un diario che il suo anonimo compagno di banco delle medie si vede all’improvviso recapitare a domicilio, tra capo e collo, cinquant’anni dopo i fatti. A questo punto il “beneficato” dall’insperato dono si mette di buzzo buono a raccontarci tutto l’ambaradan, quasi sfogliando quelle lontane memorie dal vivo. Bruno ormai è nient’altro che un pallido fantasma, sbiadito dalla lontananza spaziotemporale. Il ragazzo tuttavia, all’interno dei suoi pur adolescenziali precordi celava un frenetico, confuso ribollire di sentimenti affastellati alla bell’e meglio durante un’infanzia spensierata ma un po’ triste. A pesargli molto è stato più che altro il disperato amore della mamma per suo padre. Un genitore che il nostro non poté conoscere poiché venuto a mancare prima della sua nascita. E’ un amore struggente e senza speranza, quello della mamma di Bruno, un sentimento morboso, al limite del patologico, che come un torrente in piena ha finito col riversarsi sul figlio – il “Bruno” redivivo, appunto – continuamente alluvionato da paranoiche attenzioni e nevrotiche ossessioni. Patetici tentativi di lenire quell’abissale, incolmabile mancanza.

Ed è proprio da tale precaria situazione emotiva che scaturisce il bisogno di Bruno di evadere da quella gabbia dorata. Un desiderio di fuggire per andare a relegarsi in uno sperduto paesino della Sabina a fare da guida spirituale a ventotto sempliciotti. Un volontario esilio, quasi a rimarcare il suo desiderio di autoconfinarsi lontano dal soffocante amore materno e dalle tempeste della vita. Anche per sottolineare il voluto distacco da quei suoi “sinistri” e impegnati compagni di città con i quali aveva avuto la ventura d’iniziare le prime lotte studentesche, fino a giungere a ridosso degli anni di piombo. Un’ubriacatura ideologica della quale il protagonista avverte il profondo disagio, non riuscendo a condividere l’odio assoluto, cieco e irragionevole con cui a quell’epoca si usava demonizzare gli avversari politici. E poi i sensuali amori per tre donne, tutti descritti con vibranti pennellate di elegante, prezioso erotismo. Diversissime tra di loro, esse esprimono la quintessenza della femminilità, proprio come l’avrebbe assaporata un giovane che, agli albori del Sessantotto, si trovava suo malgrado ad attraversare mutamenti storici e sociali mai prima neppure immaginati.

Sullo sfondo c’è Roma, ma non quella monumentale o iconografica da cartolina turistica, quanto quella intimistica e particolare delle piccole piazzette o dei rioni del centro storico, rutilanti di bellezze assediate da lamiere e sporcizia, traffico e anarchia, ma col tutto soffuso di languide luci. Una città che, malgrado la condizione alquanto dimessa, nascondeva pur sempre le vestigia di passati splendori. Splendori artistici e lessicali. Perché non tutti sanno che l’amore-odio dell’Urbe per il popolo eletto risale nientemeno che all’Impero. Un abbraccio bimillenario, tanto che accanto al sacro verbo del Libro si è andato pian piano sedimentando, col passare dei secoli, uno strano idioma, una sorta di yddish trasteverino, a metà strada tra il romanesco e l’ebraico. E il romanzo è uno sguardo d’insieme gettato su questo singolare idioma che ormai, con l’avvento della modernità, ben pochi parlano – e comprendono – più.

La storia, insomma, è una di quelle che può appartenere a tutti gli “insicuri” dell’universo o, meglio, a tutti coloro che – nati in ambienti familiari borderline e investiti da mutamenti epocali come quelli che stiamo vivendo dal 1943 ad oggi – avvertono in tutta la sua pregnanza l’insostenibile inadeguatezza dell’essere. 

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