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Roma. Karalò, la start up per i sarti del centro rifugiati di Tiburtina

Progetto di inserimento lavoratori nato all’interno di un progetto Sprar a Roma, gestito dalla cooperativa Eta Beta

‘Karalò’ è una parola mandinga che significa ‘sarto’. Ma per 4 ragazzi del Mali e del Gambia, arrivati nel nostro Paese dopo un lungo viaggio, vuol dire molto di più: emanciparsi da una vita difficile attraverso il lavoro e provare ad essere finalmente indipendenti.

‘Karalò’ è diventato quindi il nome scelto per un progetto di inserimento lavoratori nato all’interno di un progetto Sprar (Sistema per richiedenti asilo e rifugiati) a Roma, gestito dalla cooperativa Eta Beta all’interno di un centro di accoglienza sulla via Tiburtina, che attualmente ospita 92 persone. A spiegare di cosa si tratta, è Redattore Sociale.

I prodotti sono realizzati con materiale da riciclo o donato da altre sartorie e tappezzerie; anche le macchine per cucire sono arrivate grazie al passaparola e a una gara di solidarietà tra amici e conoscenti. “L’idea è nata quando uno dei nostri ospiti ha iniziato a frequentare un corso di cucito presso l’associazione Casale Podere Rosa – racconta Daniele Fabbrizi, presidente di Eta Beta – Ascoltando anche gli altri ragazzi ci siamo resi conto che alcuni di loro avevano già fatto i sarti nel loro paese d’origine, e abbiamo pensato che fosse opportuno valorizzare le loro capacità mettendoli insieme in un progetto di sartoria. E così abbiamo iniziato il laboratorio all’interno del centro”.

I prodotti vengono realizzati con l’aiuto degli operatori del centro e poi venduti, attraverso un’offerta libera, nei mercatini all’interno dei centri sociali della Capitale o durante eventi particolari. “Cerchiamo di affiancarli anche nella creazione dei modelli – spiega Elisa, operatrice di Eta Beta – Mettiamo insieme la loro creatività e il loro gusto tradizionale con l’idea di quello che una persona occidentale può indossare: quello che viene fuori è uno stile fusion molto interessante. Quello che ci interessa, però, è investire sulla professionalità dei nostri ragazzi, perché una volta usciti dal centro possano essere autonomi e magari anche mettersi in proprio”.

I proventi delle vendite dei vestiti vengono reinvestiti nell’attività; una parte, viene anche lasciata ai ragazzi. “La cooperativa sovvenziona il progetto con una quota mensile che viene spesa per comprare le cose più costose come le clip o le zip – aggiunge Fabbrizi – Il resto riusciamo a recuperarlo dalle donazioni dei privati”. Una start up per richiedenti asilo. Per ora il progetto è ancora nella fase embrionale. Nell’idea della cooperativa il laboratorio dovrebbe rimanere come attività fissa all’interno del centro, così che altri rifugiati e richiedenti asilo possano usufruirne.

Una sorta di start up per avviare al lavoro il maggior numero di persone. “Vorremmo che ‘Karalò’ rimanesse all’interno dello Sprar per riuscire a inserire mano mano altre persone – aggiunge Fabbrizi – Ognuno poi potrà modificare il progetto a seconda delle sue esigenze o del suo gusto personale. Ma l’obiettivo è dare alle persone la possibilità di imparare un mestiere, così che una volta usciti dall’accoglienza possano spendersi questa professionalità. Non vogliamo che rimanga un’iniziativa fine a se stessa ma deve essere innanzitutto un’attività di formazione, perché solo così possiamo assicurare un futuro a questi ragazzi”.

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