Prima pagina » Interviste » Intervista a Federica Angeli

Intervista a Federica Angeli

La giornalista di Repubblica che da un anno vive sotto scorta

Federica Angeli, giornalista redattrice di La Repubblica, dal 17 luglio 2013 vive sotto scorta permanente a causa delle minacce di morte ricevute due mesi prima dai clan del litorale romano mentre raccoglieva dati per l'ennesima inchiesta.

Stava lavorando per Repubblica ad un reportage su alcune famiglie della criminalità organizzata di Ostia che sono sospettate di essere legate alla mafia. Una vita spesa nel nome dell'informazione, cronista di nera e di giudiziaria, da anni infatti si occupa senza paura delle infiltrazioni di Cosa Nostra siciliana sul litorale romano raccontando e denunciando gli affari dei suoi boss locali per dimostrare che la mafia esiste anche da noi, che si può combattere e che è possibile non piegarsi alla cultura del sopruso e dell'omertà.  Lo scorso marzo ha ricevuto il premio donna dell'anno 2014 per il suo coraggio e la sua professionalità.
 

D:  L'argomento mafia spesso viene ancora affrontato come una prerogativa del sud. Sappiamo infatti che  Roma da decenni è stata spartita tra note "famiglie" di Cosa Nostra siciliana, 'Ndrangheta calabrese e Camorra. Può dirci come è ad oggi la situazione del litorale romano?

R: A oggi la situazione è la seguente: due dei clan accusati di 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso, sono in carcere, in attesa della sentenza di primo grado che li vede alla sbarra. Si tratta delle famiglie Triassi e Fasciani. Tengo a fare una precisazione alla sua domanda: i 51 imputati in questo processo, fatta eccezione per Vito e Vincenzo Triassi che hanno origini agrigentine ma da sempre hanno operato su Ostia, sono tutti romani. La rivoluzione della magistratura inquirente in questo senso è epocale. Alla sbarra c'è la mafia autoctona, romana, non quella che fa capo alle mafie storicamente riconosciute. La procura di Roma ha riconosciuto comportamenti mafiosi in personaggi della malavita romana.

Per quanto riguarda gli Spada, il suo capoclan, Carmine, è attualmente in carcere per estorsione. Gli altri sono tutti a piede libero.
 

D:  Da quanto tempo da giornalista si occupa e denuncia gli affari della mafia a Ostia? E cosa l'ha spinta nel tempo a dedicarsi a questo tipo di giornalismo?

R: In verità io da quando sono a Repubblica (1998) non mi sono mai occupata di Ostia. Ho sempre lavorato su fatti di nera e giudiziaria di Roma. Tuttavia al "caso Ostia" ho dedicato un'inchiesta nel 2013.

Il giornalismo che mi piace fare è quello sul campo, investigativo. E' solo sporcandosi le mani che si guarda in faccia la realtà e si capisce come stanno le cose. Per poterlo raccontare non vedo alternative se non scendere in campo. L'ho fatto anni fa partecipando a combattimenti clandestini tra pitbull, l'ho fatto quando mi sono infiltrata in un giro di stranieri per smascherare il traffico di armi a Roma e quando mi sono finta un'aspirante escort per poter partecipare ai festini dei politici. Ecco, questo è il mio modo di lavorare. Solo che questa volta, con l'inchiesta su Ostia è andata a finire male.
 

D: Per quale motivo in parrticolare un anno fa le è stata assegnata la scorta? E come  è cambiata la sua vita da quel momento?

R: Mi è stata assegnata per il combinato congiunto di due episodi. Il primo: le minacce di Armando Spada, cugino del capoclan della famiglia nomade sul litorale, mentre portavo avanti la mia inchiesta sul malaffare a Ostia. Mi disse "ti sparo in testa" e mi tenne chiusa in una stanza per due ore quando scoprì che avevo registrato quanto ci eravamo detti con una telecamera. Questo avvenne il 23 maggio del 2013. Poi, il 16 luglio, all'una meno un quarto di notte ho assistito a una sparatoria tra due del clan Spada e due del clan Triassi sotto casa mia. Sono andata a testimoniare dai carabinieri quanto avevo visto. E da quel momento sono finita sotto scorta. La mia vita si è praticamente ribaltata dal 17 luglio di un anno fa. Fine della libertà, fine passeggiate improvvise, fine persino delle mie inchieste borderline. Andare in giro a infiltrarsi in ambienti malavitosi con due carabinieri sempre al mio fianco non è cosa. Non si può fare.
 

D: La scorta oggi è ancora uno status symbol? 

R: Per molti lo è. Non per me. Trovo assurdo ad esempio il caso Scajola e trovo ci sia una facilità nell'assegnare tutele e scorte a persone solo perché diventano politici. Avviene solo in Italia. Dovrebbero cambiare i criteri, sotto tutela ci finisce solo chi ha una reale minaccia e vive in costante pericolo. E quando l'oggettivo pericolo finisce, si torna alla libertà. Ma attenzione: l'oggettivo pericolo deve finire su elementi inconfutabili, non si può fare la fine di Biagi, non so se mi spiego.
 

D: Abbiamo visto nei TG nazionali il suo incontro/scontro  con Armando Spada, che dentro il suo stabilimento le intima di consegnargli la cassetta registrata e la minaccia di spararle in testa. Ha avuto altri faccia a faccia con i boss a Ostia?

R: Sì, quando già ero sotto scorta. Una mattina, qualcuno li ha avvertiti che mi trovavo in un bar di Ostia a fare colazione con due mie amiche e si sono presentati lì. Non hanno ordinato nulla, mi fissavano, ciondolavano la testa a braccia conserte e sorridevano. Volevano farmi vedere che mi trovano quando vogliono, che sanno dove faccio colazione. Un'intimidazione insomma.
 

D:  Quanti stabilimenti del litorale romano crede che controllino i clan? 

R: Ce ne sono diversi, ma ci sono ancora inchieste della magistratura in corso e, per ora, non posso farle i nomi.
 

D: Quale è stato l'atteggiamento della politica locale in questi anni nei confronti del fenomeno mafioso a Ostia? I politici hanno prestato attenzione al fenomeno? O lo hanno fatto solo superficialmente, facendo  finta come succede spesso, che "la mafia non esiste", almeno a Ostia e dintorni?

R: L'atteggiamento è stato esclusivamente di facciata per alcuni politici e amministratori, altri invece lo affrontavano in maniera seria ma non sono stati ascoltati. Il problema vero è che se le mafie sul litorale si sono espanse in questa maniera così prepotente è stato perché hanno avuto non solo silenzio, ma addirittura coperture negli uffici strategici. E' questo lo scandalo che raccontiamo nella nostra inchiesta su Repubblica dello scorso anno. Ed è così che funziona. Le mafie diventano potenti perché corrompono e possono contare su appoggi altolocati.
 

D: Recentemente ha ricevuto il premio donna dell'anno 2014. Cosa rappresenta per lei questo premio?

R: Per me rappresenta una presa di posizione importante da parte della politica e dei cittadini. Mi hanno votato in tanti, a mia insaputa (posso finalmente usare anche io la frase preferita di Scajola!) e questo ha significato una sorta di risveglio della popolazione dal letargo, dalla paura e dall'omertà che per troppi anni ha caratterizzato quel quartiere a 22 chilometri dal centro della capitale.
 

D: Dopo le ultime operazioni delle forze dell'ordine che hanno decimato clan come quello dei Fasciani, e al coraggio di persone come lei, finalmente il fenomeno della mafia romana ha la giusta considerazione da parte dei media e della magistratura. Ma da quanti anni in realtà la mafia domina a Roma e a Ostia?

R: Guardi, io andrei cauto prima di parlare di giusta considerazione. La rivoluzione è in corso, ma può, da un momento all'altro arrestarsi. La magistratura inquirente ci crede fortemente alla mafia romana. Ho dei seri dubbi su quella giudicante. Se pensa che è dai tempi della Banda della Magliana che non è mai stato riconosciuto il 416 bis a Roma, c'è da mettersi le mani nei capelli. Neanche alla Banda in cassazione contestarono l'associazione di stampo mafioso, finì tutto con un 416 semplice, associazione a delinquere punto. E anche sulla considerazione della stampa userei mille cautele. A parte Repubblica, quanti giornali vede che parlano di mafia romana? E quanti ne ha visti fino al 2013?
 

D: Oggi, dopo un anno di scorta e le minacce di morte che le continuano ad arrivare, lei prosegue con coraggio il suo lavoro per la legalità a Ostia. Ma chi glielo fa fare?

R: La mia coscienza, la passione che ho per il mio lavoro, l'amore per i miei figli, il rispetto verso tutte quelle persone che come me credono di poter cambiare il mondo e l'orgoglio che mi dà pensare che, comunque vada, che arrestino o meno questi malavitosi o che li rimettano in libertà, io la mia battaglia l'ho combattuta. E in parte, già vinta. Vuole mettere guardarsi allo specchio con questa consapevolezza?

Lascia un commento