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Il Marchesino del Grillo di Pietro Romano al Tirso di Roma

Quale modo per assecondare le fantasie popolari, la curiosità e il fascino del mistero attorno ad una epopea popolare infinita che struttura certa romanità

Dal 20 gennaio al 7 febbraio 2016 va in scena al teatro Tirso de Molina di Roma “Il Marchesino del Grillo”, commedia brillante dialettale scritta, diretta e interpretata da Pietro Romano in cui si narra di un testamento e di un’eredità aspramente contesa. Gli aspiranti alla successione ultra vires hereditatis sono due coppie nobili molto interessate e un intruso molto meno illustre, dai modi decisamente rozzi ma agguerriti, intenzionato a far rispettare le volontà del defunto. ‘Il Marchese del Grillo’ nella versione cinematografica ha riportato alla luce dopo quasi un secolo la figura da operetta di un aristocratico sui generis che rischiava l’oblio, generata dall’ingegno di Domenico Berardi e Giovanni Mascetti. Questo lavoro teatrale giunto 35 anni dopo, concepito e proposto da Pietro Romano al Tirso, va inteso come un tributo reso dal funambolico principe della risata ad uno dei personaggi di spirito più amati a Roma sin dai tempi di Pippo Tamburri e della Repubblica Romana. Dopo averne interpretato alcuni anni or sono a più riprese e in vari ruoli le rocambolesche peripezie, ecco balenarsi l’occasione propizia, ghiotta ed invitante, per raccontare un’invenzione buffa che ha il sapore di una primizia solleticante a lungo meditata e irrorata con passione.

Quale modo per assecondare le fantasie popolari, la curiosità e il fascino del mistero attorno ad una epopea popolare infinita che struttura certa romanità, se non raccontando teatralmente della morte e dei suoi misteri e stravolgendo con venerazione e rispetto l’epilogo di una storia mai sufficientemente accertata? Se Onofrio è la maschera di un nobile buontempone a cui la fantasia di improvvisati storiografi ha attinto con compiacimento tramandando e fondendo in tutt’uno senza ritegno episodi accaduti a vari membri della famiglia, perché non prolungarne gli effetti ed infarcirne il mito? L’apprezzabile risultato è stato quello di attribuire al discusso Marchese, oltre la fama, un’aura di legittimità e bonomia che in vita e ancor più post mortem gli era stata preclusa. Ogni attore, artista in genere, durante la propria formazione, inevitabilmente si imbatte in personaggi e autori che ne indicano la stella e a cui lega indissolubilmente il proprio destino per comuni sensibilità e percezioni oltreché affinità di intenti. Altrettanto avviene con matura consapevolezza quando si compie un percorso significativo e l’ispirazione nutrita dall’ammaestramento libera energie e insinua riflessioni interessanti. Si producono fermenti e si inducono sperimentazioni che possono tradursi nella elaborazione di contenuti propri da condividere e rappresentare. Ecco, credo fermamente che questo stia avvenendo nell’urgenza creativa di Pietro Romano che rimane fondamentalmente attore comico dalle doti smisurate e non disdegna meritevoli distrazioni da compositore.

Dopo gli adattamenti molto liberi di Goldoni e Molière e il confortante esordio da autore in “Morto per miracolo”, attraversati i trionfi de “Il Conte Tacchia”, torna a metter mano ad un testo interamente suo e lo fa nel ricordo del Marchese del Grillo che nella scala degli affetti detiene il primato e gli appartiene più di ogni altro. Affronta il tema da prospettiva mai praticata e l’esito è premiante. Ambientata nel 1839 e non a caso, in un’epoca che consente sviluppi tracciati dalla pellicola di Monicelli ancorché non propriamente coerenti con l’effettivo arco temporale dell’esistenza del marchese, vissuto nel 700 , è una vicenda molto romanzata che ha inizio dal funerale di un annoiato, bizzarro e libertino sediario pontificio i cui passatempi consistevano nel prendersi gioco di chiunque gli capitasse a tiro, non facendo distinzione di rango. Senza mai mettere in discussione l’establishment che ne puntellava i privilegi, lo scaltro Marchese fra pesanti dileggi e scherzi colossali favoriti a volte da opportuni scambi di persona, rischiando ma con criterio gli anatemi del suo protettore e garante cardinal Riccoboni, si è propiziato la leggenda. Le sue imprese sono state a lungo amplificate dalla grancassa del volgo che ne subiva il fascino al pari dei soprusi, pervaso da un sottile masochismo che ne esaltava l’operato. Prendendo spunto da questo contesto, Pietro Romano ha dato fiato a una ricostruzione fantasiosa ma pur verosimile, stante l’eccentrico soggetto, e non poteva fare di meglio.

Ha confezionato sapientemente una trama ricca di spunti e situazioni grottesche, miscelando da par suo gli ingredienti di una comicità spesso ‘ruffiana’ condita di lazzi e olezzi, in un tourbillon esilarante di equivoci e battute allusive, con la consueta verve di instancabile mattatore, coadiuvato come di consueto da un cast altamente fidelizzato. Si parte dunque dalle esequie del Marchese scandite dal rintocco di campane a morto e celebrate solennemente dall’officiante(Pierre Bresolin) mentre le antagoniste coppie di eredi, l’affettato Galeazzo(Matteo Montalto) e la sussiegosa promessa sposa Yolande(Sara Adami) e i trucidi coniugi Mario(Valentino Fanelli) e Floria(Valeria Palmacci) starnazzano irriverenti con bara appena deposta a cadavere caldo. Si prosegue con l’attesa della lettura degli adempimenti testamentali e scambi di nefandezze fra le parti. Il ‘ci hai un bel colorito’ rivolto dalla ripugnante Floria al cianotico Galeazzo introduce il poco nobile confronto. L’olfatto degli altri contendenti viene messo a dura prova dai microrganismi ascellari del greve Mario come dalle esalazioni orali della ammorbante Floria. Finalmente il notaio (Luigi Tani) annunciato dall’inquietante cerimoniere e amministratore dei beni di famiglia Speranzio (Marcopaolo Tucci) inaugura la contesa, l’imprevisto incomodo irrompe a palazzo e provoca subito una girandola di doppi sensi che l’uomo di legge riesce a stento a governare. Si tratta di Saturnino Proietti detto Nino(Pietro Romano), bifolco fuori controllo convocato a sorpresa con bastone e bisaccia in spalla. Il notaio durante la lettura avverte gli astanti della situazione disperata e dei debiti del de cuius che ha trascorso gli ultimi anni della sua esistenza in solitudine a causa dell’abbandono dei parenti serpenti.

Rendite, abitazioni, possedimenti terrieri, tutto il patrimonio dilapidato a causa del vizio del gioco tranne la residenza estiva di Fabriano ridotta a rudere e venduta per far fronte ai creditori. C’è aria di smobilitazione fra gli stupefatti nipoti. Solo un cofanetto che contiene le chiavi di venti forzieri li convince a proseguire nell’ascolto della lettura. Ma è Nino l’erede legittimo, primo per discendenza, nato da una relazione del marchese con una popolana, Cesarina Filippi. A lui andranno tutti i beni mobili e immobili residui, oltre al titolo nobiliare, ma ad un patto. In tre mesi dovrà imparare le buone maniere e sottoporsi ad un corso accelerato di istruzione per entrare a far parte degnamente dell’aristocrazia romana e avrà l’obbligo di sposare una nobile. In caso contrario verrà sottoposto alla pubblica gogna e le ricchezze equamente distribuite fra gli altri parenti. Nel frattempo costoro dovranno instaurare una giusta pacifica convivenza con Nino e in caso di allontanamento dalla dimora, perderanno ogni diritto. La serva Assunta (Claudia Tosoni) si occuperà dell’aspirante rampollo che dovrà essere scolarizzato per essere introdotto nell’alta società da Adalberto Marini Recchia, maestro di buone maniere e di …abitudini non corrisposte dal ruspante discepolo. Fra colpi proibiti e strategie avventate, la complicata convivenza volgerà al termine e la mossa finale dell’autore riserverà un imprevedibile retroscena. L’epilogo è una trovata inaspettata ma non sorprende, è uno scherzo che avvalora il mito e rende ragione ancora una volta della forza dei buoni sentimenti e dell’amore che hanno la meglio su intrighi e sotterfugi. La nobiltà è dell’anima e l’onestà degli umili di solito è destinata a soccombere ma a volte compie il miracolo destinato al meritevole e perpetua il ricordo. Pietro Romano riconsegna dignità all’uomo spogliato del personaggio, esplorato negli eccessi ma forse mai interamente compreso. Introduce aspetti inediti. Scrive così, con estrema diligenza, quasi con devozione, un apologo d’altri tempi, salda opportunamente l’anello mancante e rivendica il comune orgoglio di rappresentare la storia non detta. Quella di un’altra romanità meno chiassosa che fa meno scalpore e per questo non va taciuta. Una rivincita postuma, non per questo meno attesa e legittima.

Gli interpreti. Pierre Bresolin è l’inimitabile caratterista, elegante e scanzonato. Enorme presenza scenica. Repertorio inesauribile di classici, professionista esemplare, globetrotter dei palcoscenici. Come più volte detto, da ‘Il malato immaginario’ a ‘Morto che parla’ , è la spalla ideale che ogni attore desidera. Interpreta con istrionica ironia il ruolo di Adalberto Marini Recchia, ‘ammaestratore’ del sempliciotto ma arguto Nino e il duetto fra i due è irresistibile. Sara Adami è la delicata, leziosa Yolande Della Vedova, snob dalla erre aristocratica, promessa sposa disponibile a permuta del conte Galeazzo Donato. Sara è ammiccantee e disinvolta. La ricordiamo Placida in “Morto per miracolo”, la cameriera spettrale e indolente, ma anche Santa,la vicina di casa dispensatrice di iatture e mariticida supercollaudata. Fa parte della eletta schiera del Tirso come Valeria Palmacci che è Floria Della Fauna, figlia di Camilla sorella del Marchese, moglie del conte Mario Bove. Se la cava egregiamente in un ruolo sgradevole. Ballerina di successo oltreché brava attrice. Valentino Fanelli è il conte Mario Bove, degno complemento di Floria, ridondante di espressioni grevi fuori metafora. Appartiene alla letteratura del romano sguaiato attaccabrighe di esportazione. Adeguato al cliché. Bravo, sempre a suo agio. Matteo Montalto, esagerata macchietta di aristocratico, è Galeazzo, pedante cascamorto di Yolande, servile e spocchioso. Mi ha ricordato nei toni il Furio di ‘Bianco rosso e Verdone’. Caricatura appropriata. Marcopaolo Tucci è l’insolente Speranzio, losco amministratore di beni del Marchese.

Azzeccato e puntuale. Claudia Tosoni è Assunta, la serva di cui si innamora Nino, il protagonista. Tenera e rassicurante presenza accanto ad uno sprovveduto extraterrestre, rivela personalità, grinta e dolcezza. Semplicemente seducente. Luigi Tani è l’irreprensibile raffinato notaio, deus ex machina che smaschera la tresca, sconvolge gli equilibri e scoprendo le carte veicola il finale. Misurato e fustigatore all’occorrenza. Appropriato sempre nel duplice ruolo. Pietro Romano è fuori concorso come accade a chi, come lui, è l’indiscusso primattore e calamita il pubblico con il semplice gettone di presenza. Vuole Rugantino e, visto quello che c’è in circolazione, gli spetta di diritto. Non prima che ci racconti di sé, in segreto, sempre al Tirso, dentro al suo confessionale abituale, nello spettacolo che lo descrive più di tutti: ‘Mi presento…sono Romano!‘. Il prossimo maggio.

Sebastiano Biancheri

Foto di Adriano Di Benedetto

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