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Espulso anche Paragone. Il M5S non sopporta più chi non si allinea ai vertici

Di Battista, però, appoggia il senatore: “Gianluigi è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali”

gianluigi paragone

Il leader di Italexit Gianluigi Paragone

Disciplina di partito. Basta questa formula, che è la chiave di volta dell’espulsione di  Gianluigi Paragone, per riassumere lo snaturamento patologico e pressoché irreversibile al quale si è arrivati nel MoVimento 5 Stelle. E in cui si continua a sprofondare. La prognosi era già infausta da tempo. Ormai incombe l’autopsia. Quella che doveva essere la completa e travolgente alternativa alla politica come mestiere, e come centro di potere in cui pochissimi decidono e tutti gli altri devono adeguarsi, si è accartocciata su sé stessa. Trasformandosi in una variante che è persino peggiore degli originali. Peggiore perché altrettanto pretestuosa e intermittente nelle sue pretese di ortodossia, ma ancora più ambigua e instabile riguardo agli obiettivi e alle strategie.

Al posto del dinamismo di un tempo, una sclerotizzazione burocratica. Un approccio da questurini. O da arbitri spocchiosi che si precipitano a mettere mano ai cartellini appena capiscono che non li ossequi. Il fallo che hai commesso è la scusa. Il motivo vero è la mancata sottomissione. Se non ti allinei alle scelte dei vertici, ti liquidano come un insubordinato che ha comunque torto, a prescindere dalle motivazioni che adduci e dalle oggettive contraddizioni che denunci. Un ammutinato da punire. O persino da buttare fuori, in via definitiva e inappellabile. E per di più – attenzione – senza assumersi appieno la responsabilità della condanna.

Il metodo corretto sarebbe il pronunciamento di un organismo prettamente politico. Quello sbagliato è il deferimento ai probiviri. Una procedura che è grossolana per un verso e ipocrita per l’altro. Grossolana perché si ferma al dato di fatto di un comportamento che contravviene ai regolamenti interni: e come è stato detto, assai giustamente, “il regolamento è il rifugio degli imbecilli”. Ipocrita perché mira a far passare per oggettiva, e quindi inevitabile, una sanzione che invece discende da un giudizio di merito.

L’espulsione è un provvedimento estremo, che dovrebbe essere limitato ai casi di indegnità morale. Utilizzarla come arma contro i dissidenti è un sotterfugio ignobile. E inammissibile.

Espulso Paragone, e adesso chi sarà, il prossimo?

“Gianluigi è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali. Non c'è mai stata una volta che non fossi d'accordo con lui. Vi esorto a leggere quel che dice e a trovare differenze con quel che dicevo io nell'ultima campagna elettorale che ho fatto. Quella da non candidato, quella del 33%”. Alessandro Di Battista non usa mezzi termini, su questa vicenda. E le sue parole sono talmente nette da non poter essere ignorate: svettano ben al di là di una solidarietà generica, e si innalzano al rango di una poderosa consonanza politica. Per non dire ideologica.

Secondo affaritaliani.it, “Si tratta di una dichiarazione davvero a sorpresa, anche perché sconfessa di fatto la linea del leader politico del M5s, Luigi Di Maio, con il quale sembrava invece esserci grande comunione di intenti. Una dichiarazione che di fatto rilancia le supposizioni di chi vede Di Battista come prossimo leader al posto di Di Maio. In molti individuano proprio in lui il nome giusto per far tornare il M5s al suo spirito originario”.

Ma è una prospettiva, quest’ultima, che appare così remota da sconfinare nella pura astrazione. Per potersi realizzare, infatti, ci sarebbe bisogno che venisse meno il condizionamento di Grillo. Il quale, mai dimenticarlo, è stato ed è il più strenuo sostenitore dell’alleanza con il PD, nel delirante presupposto che Zingaretti e soci (soci: mica compagni…) possano diventare altro da ciò che sono stati in precedenza.

Un’ipotetica uscita di scena del “garante”, però, toglierebbe al M5S – che merita sempre meno la qualifica di Movimento e perciò la usurpa – la pietra angolare dell’intero edificio, portando quasi sicuramente a una disgregazione generalizzata. E accelerata. I dissidi interni esploderebbero ancora di più ed è a dir poco dubbio che proprio Di Battista riuscirebbe a detenere la titolarità del nome e del simbolo. A quel punto, potrebbe sì creare un proprio soggetto autonomo, ma senza poter contare sul vasto consenso accumulato via via dal 2007 in poi e culminato nel’exploit elettorale delle Politiche del 2018.

Il succitato “spirito originario” è svanito per sempre, come patrimonio collettivo e condiviso su larghissima scala. Circostanze eccezionali avevano permesso che si sprigionasse. Spudorati dietrofront ne hanno svelato la vera natura: un’illusione, un abbaglio, una barricata di cartapesta.

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