Dal 2022 al 2026 il fisco è cambiato davvero. Ora la partita si gioca sui salari
Dal 2022 al 2026 il fisco in Italia è diventato più lineare, più comprensibile e meno affollato di sovrapposizioni

Giancarlo Giorgetti, httpscreativecommons.orglicensesby-nc-sa3.0it
Negli ultimi quattro anni il sistema fiscale italiano ha attraversato una trasformazione tutt’altro che marginale. Si è passati da un’imposta sul reddito stratificata, piena di scaglioni, bonus e meccanismi complicati, a un modello più semplice, più leggibile e, per alcune fasce di reddito, sensibilmente più leggero. Non è stato un percorso lineare, né privo di contraccolpi, ma se guardiamo le cose con un minimo di ordine si capisce subito che la direzione seguita dal legislatore è la stessa dal 2022: semplificare e provare ad alleggerire il peso fiscale sul lavoro.
All’inizio della legislatura eravamo ancora nella stagione delle quattro aliquote – 23, 25, 35 e 43 per cento – che finivano per penalizzare soprattutto la fascia intermedia, quella tra i 28 e i 40 mila euro annui. È una parte del Paese che raramente riceve attenzioni: non abbastanza povera per i bonus, non abbastanza ricca per i veri risparmi fiscali.
La manovra economica del Governo Meloni nel 2023
Con la manovra 2023 il governo ha scelto di mettere mano al meccanismo riducendo gli scaglioni a tre e abbassando l’aliquota per tutti i redditi fino a 28 mila euro al 23 per cento. È stato un primo passo verso un sistema meno frammentato e più trasparente, che ha dato un beneficio a chi ha gli stipendi più bassi o comunque non supera i 28 mila euro.
Il secondo passaggio è quello che ha fatto più discutere: la progressiva eliminazione del cosiddetto Bonus Renzi, quei 100 euro al mese che per anni sono stati un’integrazione stabile della busta paga. La scelta ha inciso soprattutto sui lavoratori single tra i 15 e i 26 mila euro, che si sono ritrovati con un netto più basso rispetto agli anni precedenti. Ma qui è fondamentale ricordare che, nel frattempo, il sistema delle detrazioni familiari è stato completamente ridisegnato.
L’assegno unico universale
L’introduzione dell’Assegno Unico Universale ha cambiato il quadro per chi ha figli, perché ha sostituito le vecchie detrazioni portando nelle famiglie cifre molto più elevate: da 150 a 350 euro al mese per due figli, a seconda dell’ISEE. Per gran parte delle famiglie, ciò che si perdeva con il bonus è stato più che compensato dall’assegno, che oggi rappresenta il pilastro di sostegno ai redditi bassi e medi.
La vera svolta, però, arriva con la manovra del 2026, attualmente in discussione in Parlamento. Il governo propone di ridurre dal 35 al 33 per cento l’aliquota applicata ai redditi tra 28 e 50 mila euro. È un intervento che agisce esattamente su quella fascia di lavoratori che negli ultimi decenni aveva avuto la percezione, spesso fondata, di essere la meno tutelata: troppi redditi per accedere agli aiuti, troppo pochi per beneficiare dei grandi risparmi fiscali.
Qui il taglio ha un effetto concreto, misurabile, e per la prima volta stabile nel tempo: 440 euro risparmiati all’anno per chi guadagna 50 mila euro, oltre 500 euro per chi arriva a 60 mila. Non sono cifre che cambiano la vita, ma segnano una tendenza importante: meno tasse per chi lavora e tiene in piedi il sistema produttivo.
La direzione del fisco in Italia
Se mettiamo insieme tutte queste tessere – la riduzione degli scaglioni, l’assorbimento dei bonus dentro l’imposta, la nascita dell’Assegno Unico, il taglio della seconda aliquota – si capisce che dal 2022 al 2026 il fisco italiano è diventato più lineare, più comprensibile e meno affollato di sovrapposizioni. Qualcuno ci ha perso un po’, qualcuno ci ha guadagnato, ma il risultato è un sistema più coerente. E soprattutto un sistema che ha fatto tutto ciò che era possibile fare senza sforare i limiti di bilancio imposti dal debito pubblico.
Ed è proprio questo il punto conclusivo. Oggi, con un debito che sfiora il 140 per cento del PIL, lo spazio fiscale è praticamente esaurito. Ulteriori tagli generalizzati all’IRPEF non sarebbero sostenibili, nemmeno in teoria. Non esiste un governo – di destra, di sinistra o tecnico – che possa spingersi più in là senza mettere a rischio i conti dello Stato. La politica ha fatto il possibile e ha fatto la parte che le spettava.
Adesso la palla passa altrove. Aumentare i salari non è un compito che può essere scaricato sul fisco all’infinito. Ora tocca alle imprese e ai sindacati alzare il livello della contrattazione, puntare sulla produttività, aggiornare i contratti collettivi e riconoscere il valore reale del lavoro. Il differenziale tra stipendi italiani ed europei non si colma con una detrazione in più, ma con relazioni industriali mature e capaci di guardare avanti.
Il percorso fatto dal 2022 al 2026 prepara il terreno. Per far crescere i salari, però, adesso serve che chi siede ai tavoli negoziali faccia la sua parte. Il governo il suo pezzo l’ha messo. Il resto non è più nelle mani dello Stato. È nelle mani del lavoro e dell’impresa.
