Atreju 2025: troppi ospiti… All’opposizione la destra nel ghetto piaceva, ora che è al governo li fa ammattire
Giorgia Meloni a tre anni dall’arrivo a Palazzo Chigi, si è dimostrata tutt’altro che un fuoco di paglia. Imperfetta sì. Impresentabile proprio no
Atreju 2025
La Destra nel ghetto gli piaceva. Perché era facile da demonizzare imputandole all’infinito il marchio infamante delle sue radici ideologiche e liquidando come retrive le sue battaglie contro la marea dilagante del progressismo. La Destra di governo – anzi: alla guida del governo – li fa ammattire. Perché a tre anni dalle elezioni del 2022, e dall’avvento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, si è dimostrata tutt’altro che un fuoco di paglia. Imperfetta sì. Impresentabile proprio no. E infatti il consenso di cui gode rimane ampio, dando l’impressione che sia anche radicato.
Per l’opposizione è una ferita aperta. L’auspicio che la coalizione si sbriciolasse presto, sotto il peso delle divergenze interne e delle turbolenze internazionali, è finito in archivio. Spazzato via dal dato oggettivo della durata accumulata finora, che ne fa il terzo esecutivo più longevo dell’Italia repubblicana, e dalla fondatissima possibilità che sia addirittura l’unico a portare a termine l’intera legislatura.
Rimossa la speranza malriposta, restano solo i proclami. Le promesse della riscossa futura. Che però dovrà aspettare a lungo e presumibilmente, appunto, sino al 2027. In autunno se si rispetterà la scadenza naturale dei cinque anni dalle Politiche precedenti. In primavera se si deciderà di tornare alla prassi abituale di farle svolgere nella prima metà dell’anno.
Nell’attesa, si cerca di screditare come si può. Tutte le volte che si può. Attaccando a gran voce dove c’è almeno una parvenza di appiglio reale. Storcendo il naso e sibilando insofferenza dove l’appiglio non c’è.
Come per la prossima edizione di Atreju. La festa nazionale di FdI che si terrà a Roma, nei giardini di Castel Sant’Angelo, da venerdì 6 a domenica 14 dicembre.
Una Atreju, punzecchia il titolo di Repubblica, “in salsa Sanremo”.
W il pop. Se è progressista
Lo spunto è elementare. Per non dire dozzinale. Lo spunto è la presenza, tra i moltissimi altri, di Carlo Conti. Che del Festival di Sanremo è stato il conduttore tre volte consecutive una decina di anni fa, dal 2015 al 2017, e che adesso ne è anche il direttore artistico.
Tanto basta (si fa per dire) a buttare lì il paragone. Virato al negativo, ovviamente. Perché il palcoscenico dell’Ariston va benissimo se fa da passerella agli artisti da coccolare, dai maestri in declino come Roberto Vecchioni nel 2011 ai giovanotti emergenti del rap come Mahmood nel 2019 o del rock “quasi punk” come i Maneskin nel 2021. Altrimenti è, torna a essere, sinonimo di baraccone.
Vero: gli ospiti di Atreju 2025 sono tantissimi e fin troppo eterogenei, rendendo perciò impossibile scorgere un sia pur vago elemento comune – e figuriamoci identitario. Ma è la stessa logica dei programmi-contenitore che imperversano in tv. Nonché dei talkshow in cui i partecipanti sono assortiti ben al di là della loro competenza specifica sui temi di turno.
La matrice è la medesima: è quella dell’infotainment. Un po’ informazione e molto intrattenimento. In teoria si discute di temi che andrebbero approfonditi a dovere. Di fatto si lanciano esche per aggregare quanto più pubblico possibile. In modo tale che ognuno ci trovi un motivo per rimanere sintonizzato: il personaggio simpatico, quello rissaiolo, l’attore o l’attrice sexy, e via divagando.
La politica si è adattata. Da mo che si è adattata. Vedi, per citare un solo caso, ciò che avvenne il 13 ottobre 1997 nel salotto televisivo di Bruno Vespa.
Massimo D’Alema si mostrò più che volentieri mentre cucinava un risotto. E già che c’era ne disquisì con lo chef Gianfranco Vissani, regalando tra l’altro un suo prezioso accorgimento: “Invece di mettere la cipolla a sfriggere, io la lascio a bollire così perde il suo afrore”.
Che simpatico. Dietro la maschera serissima dell’ideologo, un uomo “come tutti noi” che si diletta ai fornelli.
Elettori di serie B
Il problema, se lo si volesse affrontare davvero, dovrebbe essere questa deriva. Che va avanti da decenni e che ha mischiato un po’ dappertutto il sacro e il profano, l’alto e il basso, il serio e il faceto, confondendone i caratteri e gli scopi.
In una parola, la spettacolarizzazione.
In una rima, la banalizzazione.
Visto che invece non ci si sogna di analizzare il fenomeno, e ancora prima di prenderne le distanze, è chiaro che le frecciatine di Repubblica e affini (in particolare Domani e La Stampa, anch’essi nell’edizione del 3 dicembre) poggiano su motivazioni ben diverse.
Il fastidio non è assolutamente legato al pessimo intreccio fra politica e intrattenimento. Con la prima che cerca di sfruttare a proprio vantaggio la presenza di personaggi popolari che, per il fatto stesso di esserci, danno valore all’evento di turno. E che perciò svolgono una funzione simile ai testimonial utilizzati dalla pubblicità commerciale: certo in modo più sfumato, ma pur sempre nella stessa prospettiva.
L’insofferenza di giornata, al contrario, scaturisce dalle adesioni che in questo caso sono talmente numerose e variegate – dai parlamentari dell’opposizione ai giornalisti ostili, dai volti noti dello spettacolo a quelli dello sport – da attestare di per sé che Fratelli d’Italia non è affatto percepito come un’anomalia del nostro sistema democratico.
Bensì come un partito che rientra a pienissimo titolo tra gli attori della politica nazionale e che nessuno può più illudersi di delegittimare a suon di anatemi.
Venuta meno (finalmente) la logora pregiudiziale dell’antifascismo, non resta che rifugiarsi nel discredito. Da declinare, e spargere, con ogni mezzo. Dal titolo insinuante alla riflessione meditabonda.
Il filo conduttore, talvolta sottinteso e talvolta esplicito, è che il seguito elettorale di FdI sarà anche vasto, sì, ma è di scarsa qualità.
“L’operazione – scrive Alessandro De Angelis sulla Stampa – ha una sua efficacia, perché lavora sul corpo basso della società. Lavora sull’umore e sull’immaginario di un paese che tira a campare, vuole il quieto vivere (…). Il mood non è la rivolta ma la stabilità: farsi andare bene ciò che c’è, rientrare a casa, afferrare il telecomando e guardare la tv come una distrazione dalla vita dura. Ecco, questa festa è perfetta per un paese che si vuole accontentare di ciò che ha”.
Alle solite: se le masse danno ragione a loro meritano di chiamarsi popolo. Anche se magari è quello dei gazebo. O del concertone del Primo maggio. O della deliziosa accoppiata Fabio Fazio & Luciana Littizzetto.
Se invece appoggiano la Destra, eh beh, sono senza dubbio dei tangheri che non hanno capito niente e che si sono fatti infinocchiare. Gli allocchi del populismo.
Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia
