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ATAC, Focus Referendum. Parte 3: privatizzazioni e liberalizzazioni

La promessa è quella di una ritrovata efficienza, dopo i disastri attuali. Le cose, però, sono più complicate

PRIVATIZZAZIONI O LIBERALIZZAZIONI

Occhio, perché qui si gioca una partita delicata. E rispetto alla quale è facile essere ingannati.

In linea di principio la differenza è precisa.

Privatizzare significa che un’azienda pubblica cambia natura e diventa, appunto, un soggetto privato. Non immaginatevi, però, che sia sempre e comunque come girare un interruttore, per cui le conseguenze si producono tutte in un sol colpo. Non è così.

La questione è più complessa e in molti casi la transizione non è immediata, specie quando si parla di grandi aziende e di settori delicati o addirittura, come si dice, strategici (ENEL nel campo dell’energia, INA in quello assicurativo, Telecom nella telefonia, etc.). Il primo passo, di solito, consiste nel creare delle SpA a capitale misto, con la compresenza di enti pubblici e di imprese private. In questo modo, si dà inizio a un processo che potrà avere tempi più o meno lunghi di completamento.

Nel caso di ATAC, quindi, un’ipotetica privatizzazione richiederebbe innanzitutto che vi fossero degli imprenditori interessati ad acquisire l’azienda attuale. Che, com’è noto, è gravata da un debito nell’ordine di 1,3 miliardi e si trova in regime di concordato preventivo, ossia sull’ultimo scalino giudiziario prima della dichiarazione di fallimento.
La domanda è elementare: perché qualcuno se ne dovrebbe fare carico in blocco, rinviando a chissà quando il recupero dei capitali investiti e il conseguimento di un profitto che renda remunerativo l’investimento?

La risposta è altrettanto netta: l’unico motivo che giustificherebbe un’operazione così onerosa (lasciando da parte altre motivazioni che non sono strettamente imprenditoriali, specie se riferite alla singola azienda) è la certezza che il rapporto esclusivo con il Comune persista a lungo o lunghissimo termine. Rilevare Atac, perciò, servirebbe ad acquisire un mercato senza concorrenti e con una clientela tanto vasta quanto priva di alternative. Beninteso: anche a queste condizioni non è detto che l’affare sarebbe vantaggioso, ma almeno avrebbe una sua logica.

Cosa scrivono i promotori del referendum, invece?

Puntualizzano che “la liberalizzazione è tutt’altra cosa rispetto alla privatizzazione, anzi ne è il suo contrario”. E nello sbandierarlo fanno sembrare che la loro sia una poderosa scelta politica, o persino etica. Una scelta che viene adottata nel preciso intento di tutelare gli interessi dei romani. A cominciare dal fatto che il servizio di trasporto rimanga saldamente in mani pubbliche.
Le cose, come abbiamo appena visto, stanno diversamente: la privatizzazione di Atac non è sul tavolo delle possibilità concrete, e quindi non si ha nessun merito a scacciarla come un’opzione sbagliata. Più che sbagliata, è inesistente.

La vera minaccia della privatizzazione è un’altra. Ma ne parleremo più avanti.

DÀI, CHE CI PENSA IL MERCATO

Veniamo alle liberalizzazioni.

Sul sito di PMI, il portale italiano delle piccole e medie imprese, si trova questa definizione, che risale ormai a parecchi anni fa: “Il termine si è diffuso in Italia solo di recente, praticamente in coincidenza con l’arrivo dell’euro, e sta a indicare un processo legislativo tramite il quale si vanno a ridurre restrizioni di mercato precedentemente esistenti. Si tratta, in altre parole, di adeguare determinate regole economico–commerciali ai principi del liberalismo economico, delle esigenze di libera scelta e di autonomia”.
Traduzione: meno Stato e più imprese. Anzi: sarebbe bene che lo Stato si facesse da parte in qualunque settore che possa generare un business. Lasciando che i relativi introiti, e i relativi profitti, finiscano nelle mani degli imprenditori.

Il cardine di questo approccio – o di questa rivendicazione – è una specie di dogma: i privati gestiscono meglio le proprie attività per il fatto stesso che sono mossi dal desiderio di guadagnarci su. Quindi saranno più efficienti. Quindi taglieranno i costi ingiustificati. E quindi, nonostante il lucro che si ripromettono di conseguire, saranno in grado di praticare dei prezzi finali più bassi. O, come si usa dire, più competitivi.

Ma è davvero così? È sempre così? Ovviamente no: basta vedere il grande numero di imprese private che falliscono. Per non parlare degli abusi commessi dalle banche e da altri operatori finanziari, che essendo padroni del settore creditizio tendono a tiranneggiare i clienti. Quei clienti che, però, sono innanzitutto dei cittadini.

IL CERCHIO SI CHIUDE

Le liberalizzazioni vanno viste in prospettiva. Promettendo maggiore efficienza mirano a far credere che le finalità delle imprese coincidano con quelli della popolazione. All’inizio, si proclama a gran voce che la supervisione pubblica garantirà che tutto sia a vantaggio dei cittadini. In seguito, si vedrà.

Pensate alle ferrovie: le tratte ad alta velocità, e a prezzo elevato, si sono moltiplicate esponenzialmente. Quelle a velocità normale sono diventate una rarità sulle lunghe percorrenze. Oppure un supplizio quotidiano per i pendolari che utilizzano i treni locali.
I sostenitori del referendum scrivono, proprio in apertura del sito, che “finalmente votando sì potremo mettere a gara il servizio di trasporto pubblico, a una o più aziende, sotto il diretto controllo del Comune di Roma che continuerà, ad esempio, a stabilire il prezzo del biglietto e le tratte necessarie per ogni quartiere”.

In un primo tempo, forse sì.

Ma con l’andare degli anni c’è da scommettere che si comincerebbero a fare ragionamenti prettamente commerciali: un servizio migliore esige tariffe più alte.
Il distinguo tra privatizzazioni e liberalizzazioni si rivelerebbe allora per ciò che è: una differenza “tecnica”. Il significato politico delle privatizzazioni non si esaurisce in quello che abbiamo visto. Non si tratta di privatizzare una certa azienda pubblica, permettendo ai privati di comprarla, ma di consentire ai privati di usare beni e servizi pubblici per i loro fini di lucro.

Sorvolando sul fatto che i beni e i servizi pubblici sono, innanzitutto, dei beni e dei servizi sociali.

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