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Roma, Umberto I: chirurgo rischia denuncia per trasfusione di sangue a testimone di Geova

Un’operazione salva una paziente testimone di Geova, ma la trasfusione contro rifiuto scritto può diventare querela e indagine

Policlinico Umberto I, Wikimedia Commons Carlo Dani

Policlinico Umberto I, Wikimedia Commons Carlo Dani

A volte Roma sembra una città fatta di pietra e di carte bollate. In mezzo ci sono persone vere: una donna che entra in ospedale con una scelta già messa nero su bianco, un medico che vede i parametri cambiare e il tempo accorciarsi. Al Policlinico Umberto I, dopo un bypass gastrico e una complicazione ravvicinata, la paziente testimone di Geova avrebbe ricevuto una trasfusione nonostante il rifiuto scritto, e oggi sta bene. È proprio questo il dettaglio che rende la vicenda spiazzante: la cura funziona, ma la cura potrebbe finire davanti a un giudice.

Roma, Umberto I: la storia di un secondo intervento e di una decisione in corsa

Le ricostruzioni raccontano di ore complicate: un primo intervento riuscito, poi la necessità di tornare in sala operatoria a breve distanza. In un quadro così, i medici ragionano anche sul sangue, sul plasma, su ciò che può reggere l’organismo. Eppure la donna, coerente con il suo credo, avrebbe già consegnato un “no” che non lasciava spiragli: niente trasfusioni nemmeno in caso di pericolo di vita. Quando la situazione si sarebbe fatta critica, il chirurgo avrebbe chiamato la Procura, parlando con il pm di turno esterno. Un colloquio che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto dare una direzione e anche una tutela: “posso procedere?”. Poi l’intervento, la trasfusione, il risultato buono.

Roma, Umberto I: quel “no” non è un capriccio, per chi lo scrive

È facile raccontarla come una storia di gratitudine mancata o come un braccio di ferro religioso. Ma chi firma un rifiuto così netto spesso lo vive come parte della propria identità. Per un testimone di Geova, il sangue ha un significato spirituale che incide sulle scelte terapeutiche; e quelle scelte, in Italia, si legano al consenso informato, al diritto di dire sì o no. Proprio su trasfusioni effettuate nonostante il dissenso, la giurisprudenza ha discusso responsabilità e confini: non è un terreno vergine, e per questo il caso dell’Umberto I parla anche a chi non ha alcun legame con quella fede.

Roma, Umberto I: il medico e l’istinto di non perdere un paziente

Dall’altra parte c’è il mestiere, nudo. Un chirurgo che entra in sala operatoria non ragiona in astratto: vede una persona. E ogni minuto in emergenza pesa. È qui che nasce la tensione più dura: se la trasfusione è percepita come l’unica via per evitare il peggio, ignorare quel gesto diventa per alcuni un “non fare abbastanza”. Eppure, per il diritto, “fare” senza consenso può diventare un problema serio. Non basta dire “l’ho salvata”: conta come, quando, e con quali atti documentati. E conta anche l’elemento particolare di questa storia: il contatto con la Procura prima di procedere.

Roma, Umberto I: perché si parla di violenza privata e che cosa può pesare

Le notizie parlano di possibile denuncia per violenza privata, reato che richiama l’idea di costrizione. Se la donna querelasse, si aprirebbe una fase di accertamenti: cartella clinica, consenso, rifiuto scritto, tempistiche, alternative praticabili, dettagli del secondo intervento, e anche la ricostruzione del contatto con il magistrato. In casi precedenti, i tribunali hanno ragionato proprio su dissenso “attuale” e informazione completa: cioè se il rifiuto sia stato espresso in modo pienamente consapevole rispetto al rischio imminente e non solo come formula generale. È un passaggio che può cambiare l’intera lettura del fatto.

Roma, Umberto I: la città che commenta e l’ospedale che deve proteggere tutti

Fuori dall’ospedale, Roma commenta di pancia. Dentro, un ospedale grande come una città deve proteggere pazienti e operatori: con procedure chiare, mediatori, comitati etici, percorsi “senza sangue” quando possibili, e soprattutto con una cultura del consenso informato che non sia solo firma su un modulo. Perché ogni storia simile lascia scorie: nei corridoi, nelle famiglie, nei reparti. E lascia una domanda che non ha risposta unica: la fede della paziente prevarrà sulla riconoscenza? O, più semplicemente, prevarrà il bisogno di far valere un diritto che lei considera non negoziabile?