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Breve sguardo sulla nascita e lo sviluppo della psicoanalisi

Ma perché avvenne la rottura tra Freud e Jung? In altre parole, cosa contraddistingue e caratterizza la posizione di Jung rispetto a quella del suo maestro?

psicoanalisi

Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, dal film Dangerous method (2011)

Il Novecento è stato un secolo profondamente rivoluzionario. Tra le molte rivoluzioni che lo hanno caratterizzato e segnato in profondità c’è – senza ombra di dubbio – la nascita e lo sviluppo della psicoanalisi.

I tre nomi di maggior peso, corrispondenti alle tre scuole più importanti attualmente in attività, sono quelli di Sigmund Freud (1856-1939), Carl Gustav Jung (1875-1961) e Jacques Lacan (1901-1981). Ma molti altri nomi di primo piano possono essere ricordati, tra coloro che hanno dato consistenza e spessore scientifico al movimento psicoanalitico.

Si pensi ad Alfred Adler, Sándor Ferenczi, Georg Groddeck, Sabina Spielrein, Anna Freud (figlia di Sigmund), Melanie Klein, Wilfred Bion, Donald Winnicot, Matte Blanco, Cesare Musatti, Ernst Bernhard, Aniela Jaffé, James Hillman.

Tutto ebbe inizio a Vienna, quando – nel 1899 – Freud pubblicò “L’interpretazione dei sogni”. Nello stesso anno, Karl Kraus iniziava la pubblicazione della sua rivista “Die Fackel” (“La Fiaccola”), che avrebbe diretto e scritto quasi interamente da solo. Nel 1901, Thomas Mann pubblicava i “Buddenbrook.

Decadenza di una famiglia”. Nel 1902, Benedetto Croce dava alle stampe “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale”. Il Novecento era cominciato, dando subito prova della sua profondità e del suo spessore culturale e spirituale.  

Sguardo da un oblò

Le conseguenze dell’azione di Freud sulla cultura occidentale furono enormi, ben al di là del suo campo specialistico di appartenenza. Un intellettuale di genio come Roberto Bazlen (1902-1965), che certe cose le capiva e le sapeva bene, scrisse un breve saggio su Freud, che merita di essere qui ricordato e brevemente analizzato, perché ci permette di dare un sintetico sguardo alla grandezza spirituale e teorica di Freud.

“Nell’ambito della cultura occidentale, Freud ha scoperto una nuova dimensione dell’uomo” (“Scritti”, Adelphi, pp. 259-261), scrive Bazlen. Nonostante i limiti intrinseci alla sua opera, caratteristica che lo accomuna ad ogni grande creatore di mondi spirituali nuovi, niente può intaccare la solidità della sua grande scoperta. “Genialità implica unilateralità, implica monomania.

Scoprire un mondo nuovo crea l’obbligo di non vedere gli altri”. Si pensi a Platone. Per Platone esiste una sola realtà e una sola dimensione: l’idea. Si pensi ad Hegel. Per Hegel esiste una sola dimensione e una sola realtà che ingloba tutto: lo Spirito. Si osservi da vicino il pensiero di Marx. Per Marx c’è solo un piano speculativo: il materialismo storico e la critica del capitalismo.

Questa è la lezione di quelli che Colli chiamava i tiranni dello spirito. Siamo noi, le generazioni che vengono dopo i giganti, che dobbiamo correggere, sfumare, creare quella visione del mondo in cui la nuova scoperta si fonde e non domina.

“Freud giovane aveva la barba dignitosa e solenne degli scienziati del diciannovesimo secolo”, scrive Bazlen. Freud scava in profondità. Curvo sul suo microscopio, “scopre i bacilli dell’anima. E scopre l’anima”. Tuttavia, per Bazlen – come per Adorno nella prima parte di “Minima Moralia” – dalla dottrina di Freud discenderebbe una visione conformistica della realtà, quasi che Freud avesse cercato una sorte di adattamento allo status quo del capitalismo maturo.

Punto di vista che, sommessamente, non condividiamo. Si pensi a grandi saggi di Freud – che trascendono l’ambito strettamente psicoanalitico – come “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921), “L’avvenire di un’illusione” (1927), “Il disagio della civiltà” (1929) o all’ultimo grande lavoro su “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1939). Vi si scorgerà un maestro della critica al mondo occidentale, l’ultimo grande illuminista.

In ogni caso, l’apprezzamento di Bazlen per Freud, supera le riserve e le critiche a questo grande psicologo: “Uno sguardo incorruttibile e cauto, un empirismo feroce, religioso, una lealtà di procedimento che non scarta nessun controargomento prima di averlo accuratamente vagliato, un’onestà responsabilità equità, ecc., una abilità didattica che fa arrivare il discepolo, convinto, al punto dove il maestro lo voleva portare, un grande gesto dispotico che difende quanto sente di aver positivamente conquistato, – e, nei grandi momenti, un pathos intellettuale e una solennità di dizione che bastano, da soli, a dare la misura di quest’uomo e di quest’opera”.

Una rivoluzione nel nome dei simboli

Quando si ha la fortuna di avere un grande maestro e si è allievi di pari grandezza, inevitabili sopraggiungono il distacco e la rottura. Tale fu per il legame tra Platone e Aristotele. Per quello tra Freud e Jung. Per quello tra Husserl e Heidegger. Per Adorno e Habermas. Difficilmente l’allievo potrebbe spiegare le ali, spiccare il suo volo, se rimanesse sottomesso alla volontà tirannica del maestro.

Indubbiamente Jung aveva una personalità, un genio e un talento speculativi, una forza umana sufficienti per contrapporsi a Freud. Cresciuto nella Basilea del giovane Nietzsche e di Jacob Burchkardt, era un giovane psichiatra svizzero quando si avvicinò alle idee di Freud.

Quando i due si incontrarono, nel 1907, parlarono per tredici ore di fila. Poi, nel 1912, la rottura. Qualcosa dell’intensità travolgente del rapporto tra Freud e Jung traspare anche nei film “Prendimi l’anima” (2002) di Roberto Faenza e “A dangerous Method” (2011) di David Cronenberg.

Per avvicinarsi alla molteplice, complessa, tentacolare opera di Jung, esiste un ottimo strumento. Si tratta del libro “Jung parla. Interviste e incontri” (1977, ed. it. Adelphi). Il libro è dedicato ad Aniela Jaffé, psicologa tedesca, amica e collaboratrice di Jung, che con lui ha scritto “Ricordi, sogni, riflessioni” (1961, ed. it. Bur), l’altra porta di accesso alla complessa elaborazione teorica e psicologica di Jung.

Grande giovamento alla comprensione delle dottrine junghiane e dello junghismo, vengono anche dalle opere di James Hillman. Non solo “Il codice dell’anima” (1996, ed. it. Adelphi). Ma, soprattutto, “Il mito dell’analisi” (1972, ed. it. Adelphi) e “Re-visione della psicologia” (1975, ed. it. Adelphi). Nonché, tra i volumi di recente pubblicazione, “Psicologia alchemica” (2010, ed. it. Adelphi).

Ma perché avvenne la rottura tra Freud e Jung? In altre parole, cosa contraddistingue e caratterizza la posizione di Jung rispetto a quella del suo maestro? Entrambi non erano filosofi ed entrambi furono molto decisi nel rivendicare la scientificità del loro metodo. Cosa che, affrontando le loro opere e il loro pensiero, appare a noi indiscutibile.

Per Freud, l’inconscio ha una matrice individuale. Mentre, per Jung, a una dimensione individuale dell’inconscio, si associa una dimensione collettiva. Ma, ciò che è ancora più importante, è che per Freud la libido, l’eros, la sessualità, il principio di piacere è il perno centrale di tutta la vita psichica. Ciò rispetto a cui tutte le altre manifestazioni della psiche sono subordinate.

Per Jung, non è così. Stimolato dal confronto con Adler, che aveva centrato la psiche sulla potenza e dallo studio delle culture primitive, Jung dà della psiche una lettura più ampia e complessa, basata e centrata sul mito. Freud si era basato, soprattutto, sul mito di Edipo.

Jung li esplora praticamente tutti e si focalizza sulla dimensione collettiva dell’inconscio e sull’alchimia, per ricongiungere il patologizzato uomo contemporaneo alle radici più profonde della sua personalità. Non a caso, sopra la porta della sua casa a Küsnacht, nei pressi di Zurigo, Jung aveva fatto incidere un oracolo delfico tradotto da Erasmo da Rotterdam, che dice: “Vocatus atque non vocatus deus aderit” (“Chiamato o non chiamato, il dio sarà presente”).

Concludendo

Un aforisma di Kraus punzecchia Freud e Jung (nonché Lacan) molto da vicino: “Psicoanalisi: un coniglio che viene inghiottito dal Boa constrictor voleva semplicemente indagare com’era fatto dentro”. Al netto delle critiche che è possibile rivolgere alle dottrine psicoanalitiche, ciò che spesso sfugge è che si tratta non solo di teoria ma di pratica clinica.

Ossia l’obiettivo e il fine delle affascinanti costruzioni speculative di Freud e Jung e degli altri teorici della psicoanalisi è, in ogni caso, la cura. Che si tratti di depressione, isteria, nevrosi, fino alle forme più gravi di psicosi e alla paranoia e alla schizofrenia. Come abbiamo visto, Freud e Jung furono anche grandi critici del mondo contemporaneo.

Di cui intuivano la latente follia collettiva. Difficile pensare che personaggi come Hitler, Mussolini, Stalin non fossero fortemente condizionati in senso patologico e negli scritti di “Jung parla” sulla psicologia della dittatura il grande psicoanalista svizzero ne dà la dimostrazione.

Analogamente, è lecito pensare che Trump, Netanyahu, Putin non brillino sul piano della salute mentale, al netto delle popolazioni civili che subiscono le conseguenze delle loro scelte politiche. Ecco, allora, che la psicoanalisi risulterà l’unico strumento di cura per un mondo che si ammala, progressivamente, sempre di più.