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Milan-Como in Australia. Stanno stravolgendo il calcio e fanno finta di averlo a cuore

Il motivo di Milan-Como in Australia? I quattrini. Non tanto quelli che ne derivano subito, ma quelli che ne potrebbero venire in futuro

Pallone su un campo di calcio

Calcio, pallone, pexels, pixabay

Fa ridere. Anzi no: farebbe ridere se fosse solo una battuta, un progetto ridicolo che non si realizzerà mai, una cosa da cinepattone o roba (robaccia) del genere.

Niente affatto. È autentica, è decisa, è ufficiale. Si farà davvero, questa colossale assurdità: Milan-Como, 24esima giornata della Serie A 2025/26, ovvero quinta del girone di ritorno, l’otto febbraio del prossimo anno non si disputerà a Milano. E nemmeno in Italia. E nemmanco in Europa. Bensì… a Perth, in Australia.

Il motivo? I quattrini. Non tanto quelli che ne derivano subito, limitati a pochi milioni, ma quelli che ne potrebbero venire in futuro.

Il pretesto? In quel periodo ci sono le Olimpiadi invernali, assegnate appunto a Milano & Cortina, e perciò lo stadio Meazza non è disponibile. Se poi vi state già chiedendo perché mai uno stadio di calcio debba essere “requisito” dalle Olimpiadi invernali… fate benissimo.

La questione, invero, sfugge persino all’Intelligenza Artificiale – che per quanto artificiale un po’ di intelligenza ce l’ha – e infatti la sua indicazione è nettissima: “Lo Stadio San Siro (non Meazza, anche se il nome completo è Stadio Giuseppe Meazza) non è incluso nel programma delle Olimpiadi Invernali di Milano Cortina 2026, poiché non ospiterà eventi sportivi o cerimonie.” 

Invece no. Benché la cerimonia di apertura si tenga il 6 febbraio, e benché nessuna gara del calendario olimpico richieda di svolgersi in uno stadio destinato al calcio, in quella maledetta domenica la partita tra Milan e Como non si può svolgere.

Pertanto, oplà, la si fa giocare altrove.

A quasi 14 mila chilometri di distanza.

Pensosi. Ma allegrotti

Sul sito della Lega Calcio lo definiscono “commento”. E siccome il suo unico pregio è di essere relativamente breve, si possono anche spendere due minuti per leggerlo tutto.

Tra l’esilarante e il grottesco, e tra l’ipocrita e l’impudente, il testo è a suo modo esemplare.

Premessi i salamelecchi di rito, al presidente della UEFA Ceferin e a quello della FIGC Gravina, si dà il via alle capriole dialettiche per difendere, o addirittura rivendicare, l’intera operazione.

“Per noi – afferma con esplicita soddisfazione il presidente Ezio Simonelli – una situazione di contingenza legata all’indisponibilità dello Stadio di San Siro si è trasformata in un’opportunità per accontentare i numerosi tifosi del calcio italiano, che avranno la possibilità di seguire la partita dal vivo a Perth, e anche per le due squadre e il calcio italiano di incrementare la visibilità internazionale e la fan base. Sono certo che i tifosi di Milan e Como, che comunque non avrebbero potuto seguire il match al Meazza, capiranno il sacrificio che in questa occasione sarà loro richiesto, ma che si rifletterà in importanti benefici per le loro squadre.”

Quasi quasi… dei benefattori. Sensibili al desiderio (oh, quanto legittimo) dei tifosi stranieri di vedere dal vivo una partita del calcio italiano, e nondimeno strasicuri che i tifosi nostrani “capiranno il sacrificio”.

La verità, al contrario, è seminascosta nel mezzo di questo bozzolo di chiacchiere.

La verità, che in seguito è stata confermata in maniera ben più esplicita e arrogante da Luigi De Siervo, amministratore delegato della Serie A, è che si vuole “incrementare la visibilità internazionale e la fan base”.

Vale a dire, il pubblico. I consumatori. Chiunque sia disposto, ai quattro angoli del mondo, a spendere soldi per alimentare il business del pallone.

Quello “made in Italy”, nel caso specifico. Ma il discorso, la distorsione, sono di carattere generale.

A tutto campo, diciamo così.

Una tantum, come no

Scodellato l’impiccio – risibile nelle premesse e subdolo negli intenti – è partita la corsa a negare che si tratti di un’iniziativa apripista. Anche se, nel frattempo, è stata concessa una seconda autorizzazione (straordinaria, ci mancherebbe) per consentire che il prossimo 21 dicembre Villarreal-Barcellona non si giochi in Spagna, bensì a Miami.  

“La Uefa – si legge nel comunicato ufficiale – ha ribadito oggi la sua chiara opposizione allo svolgimento di partite di campionato nazionale all’estero.Tuttavia, il Comitato Esecutivo Uefa ha preso con riluttanza la decisione di approvare, in via eccezionale, le due richieste ad esso sottoposte. La Uefa contribuirà attivamente al lavoro in corso condotto dalla Fifa per garantire che le regole future mantengano l’integrità delle competizioni nazionali e lo stretto legame tra i club, i loro tifosi e le comunità locali”.

Figurarsi.

Sono decenni e decenni che stanno stravolgendo il calcio, recidendo a una a una le radici che all’origine alimentavano “lo stretto legame tra i club, i loro tifosi e le comunità locali”, ma fanno finta di averle a cuore.

Gli indizi, per dirla in chiave giudiziaria, sono “gravi, precisi e concordanti”. Se fosse vero, come sostiene il proverbio, che due indizi fanno una prova, qui di prove ne avremmo a vagonate.

Ma se non è sport, cos’è?

Uno: le squadre dei campionati nazionali sono piene zeppe, quantomeno nei campionati più ricchi, di giocatori stranieri.

Due: accanto alle maglie con i colori sociali, che sono l’equivalente di quelli che campeggiano sulle bandiere degli Stati, ne escono a getto continuo delle altre che non c’entrano un accidente. Non solo pasticciate e generalmente brutte/orride sul piano estetico, ma incomprensibili per la loro oggettiva estraneità rispetto alle tradizioni e, quindi, all’identificazione dei tifosi.

Tre: i prezzi dei biglietti e del merchandising sono elevati, con tendenza all’esoso.

Quattro: gli aspetti prettamente sportivi si stanno mescolando con gli allestimenti tipici degli show, per cui seguire i match, sia in televisione che di persona, significa sorbirsi un mucchio di baggianate di contorno.

Potremmo continuare? Certo che potremmo. Ad esempio, sottolineando le continue e cervellotiche modifiche al regolamento, i toni enfatici e spesso scandalistici con cui i media di settore trascurano le analisi tecniche per soffiare sul fuoco dell’emotività, il diluvio di spot pubblicitari che infestano la messa in onda delle partite, quand’anche trasmesse a pagamento.

Sono valori sportivi, tutti questi? Manco per sogno.

E allora, se non è sport – quello vero, degno di ammirazione collettiva e di supporto pubblico – diventa più che altro una messinscena. Un business che si attorciglia su sé stesso e che invece di restare uno sfruttamento collaterale si trasforma nella finalità decisiva.

Una priorità assoluta che snatura ciò che maneggia. Una deriva che andava capita, e fermata, già tanto tempo fa.

Certo: ci sarebbe voluta una robusta base di intelligenza e di buona fede. Ma evidentemente non c’era.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia