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Bonafede e il tipico atteggiamento politico rispetto alla mafia

Le accuse a Bonafede nascono da un tipico atteggiamento politico, già dimostrato e messo in pratica per ottant’anni da quasi tutti i governi italiani

Ministro Bonafede, Massimo Giletti

Ministro Bonafede, Massimo Giletti

Bonafede, ministro di Giustizia. Dietro la faccia, il sorriso e l’intonazione da mite fraticello di campagna (probabile allevatore di polli e tacchini) che il ministro Bonafede esibisce sempre ed ovunque con encomiabile costanza, si cela in realtà un “duro” grintoso animato da cosmiche ambizioni, tanto da far pensare che la somiglianza del suo cognome con quello di Bonaparte sia divenuta per lui un segno del destino, un auspicio galvanizzante e irrinunciabile. Ma là dove Bonaparte era trascinato da un’eroica audacia, Bonafede invece opta per astuzie da sacrestia e da retrobottega. Comunque sempre di astuzia si tratta, e di alto profilo: si potrebbe addirittura affermare, senza tema di smentita, che lo scaltro statista superi in acume d’astuzia perfino le galline e i tacchini.

Bonafede superstar

Lo stiamo adulando? Niente affatto: gli rendiamo il giusto merito, specie dopo che -meritatamente, l’ha scampata bella dopo l’infame iniziativa per sfiduciarlo. Iniziativa messa in opera da politicanti da strapazzo, invidiosi del suo equilibristico stile di gestione degli affari politici e giudiziari. E si tratta (eccome!) di un equilibrismo di alto livello. Chi meglio di lui e dei suoi stretti collaboratori di cui è corresponsabile avrebbe saputo conciliare garantismo spinto, anzi osé. E amorevole apprensione per i rischi teorici di salute dei suoi sfortunati simili e fratelli in Dio, prontezza decisionale e senso evangelico di carità? Non sono forse questi i nobili motivi ispiratori del generoso rientro a casa. Dai propri cari, dai propri cani, ma anche dagli imprenditori taglieggiati, ma oramai seriamente affezionati al rito del “pizzo”, concesso a stuoli di mafiosi e camorristi in regime carcerario di massima sicurezza (e tristezza)?

Bonafede e Di Matteo

E non risponde forse ad una ben rimeditata carità evangelica l’avere risparmiato al troppo impavido Nino Di Matteo, vero Tyrannosaurus Rex per i mafiosi, le fatiche e i pericoli di un incarico di prima linea nel controllo socio-giudiziario della criminalità organizzata,dopo che per avventata fiducia lo aveva invitato ad assumerlo?

Bonafede e malafede

I grandi uomini sono tragicamente predestinati ad essere apprezzati e rimpianti solo dopo la loro dipartita. E dunque questo Giusto preposto alla Giustizia, nella sua vita terrena dovrà sorbirsi con evangelica mansuetudine le critiche malevole e vigliacche degli uomini che non sono Bonafede, bensì intossicati dalla Malafede. E tra queste critiche, che giustamente il Giusto respingerà, si annovera l’azzardata ipotesi che le decisioni amministrative sopra accennate derivino non certo da una qualche connivenza con il crimine organizzato, ma da un tipico atteggiamento politico, duro a morire, già dimostrato e messo in pratica mille volte per ottant’anni da quasi tutti i governi italiani.

Un’apparente pace sociale

Vale a dire, evitare ad ogni costo interminabili attacchi sanguinari e devastanti delle mafie contro persone e cose, qualora lo Stato fosse implacabilmente reattivo. Almeno nel medio periodo, lo Stato apparirebbe all’opinione pubblica vulnerabile o perdente, e con lui i partiti di governo. Inaccettabile per politici di carriera. Meglio invece, nel lucroso tran-tran delle attività criminose meno visibili alla pubblica opinione, accreditarsi il merito di un’apparente pace sociale. E ogni tanto, di “clamorose” retate di cinquanta delinquenti, là dove ne rimangono a piede libero altri cinquemila. Non stuzzichiamo il pitbull che dorme: o meglio, che finge di dormire.

*Articolo curato da Gaetano Arezzo.

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