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“Alé–ohò, la lebbra che ucciderà lo sport: le tifoserie trucide

Ecco qualche dato saliente sull’entità del fenomeno. In tutta Italia si contano oltre 40 mila ultrà…

Riflessioni a puntate e a piccole dosi su vari argomenti (familismo, campanilismo, regionalismo, passioni sportive, sette, partiti e movimenti, nazionalismo, etnocentrismo, razzismo) utili -forse- a capire meglio chi siamo; con particolare riferimento all’Italia e agli Italiani. Siamo alla quarta parte del nostro approfondimento, dedicato questa volta al senso di appartenenza nelle tifoserie. La passione sportiva può essere fonte di arricchimento delle proprie esperienze di vita, oltre che un sano e costruttivo impiego del tempo libero, utile per lo sfogo di esuberanti energie o per ritemprarsi dalle monotone fatiche del lavoro quotidiano. La passione sportiva ci accomuna ad altri che la coltivano e con ciò costruisce un positivo senso di appartenenza che agevola svariate forme di socializzazione e il consolidamento di sincere amicizie.

Questa auspicabile condizione è felicemente vissuta da una parte dei nostri connazionali in grado di usufruirne ma non certo dalla loro totalità. E’ in effetti sotto gli occhi di tutti il diffuso fuorviamento della passione sportiva verso modalità patologiche di tipo paranoide che attecchiscono nell’ambito del tifo accanito, quando la passione deborda dai suoi limiti naturali e diventa qualcos’altro: una sorta di malattia infettiva (il “tifo”, appunto) tale da capovolgere, come vedremo, lo sport in “anti-sport”, l’empatia con la propria squadra in dipendenza acritica, la socialità in gregarismo faziosamente aggressivo. Stiamo parlando delle tifoserie organizzate, delle quali delineiamo innanzitutto le caratteristiche psicologiche e psico-sociali:

  • Deindividuazione: un individuo inserito in un gruppo numeroso o in una folla tende a non considerarsi come un singolo, bensì come un membro di un gruppo relativamente anonimo, e quindi si sente meno identificabile e meno responsabile del suo agire, per cui le norme sociali contro l’aggressività impulsiva non risultano più vincolanti. Si giunge ad un’indistinta “diffusione della responsabilità”.
  • Categorizzazione ingroup/outgroup: tendenza a difendere ed esaltare dogmaticamente il proprio gruppo (anche quando palesemente ha torto o compie errori: right or wrong, it’s my country) e ad attaccare e denigrare gli altri gruppi, infischiandosene di valutarne appropriatamente i comportamenti. L’esasperazione dell’antagonismo è tipica e immancabile, perché l’identità dei tifosi ultras si struttura proprio sulla base dell’individuazione di un nemico esterno: quanto più intensi diverranno i sentimenti di solidarietà e supporto al “noi”, tanto più ostili diverranno gli atteggiamenti contro di “loro”.   
  • Omologazione: “gli altri” sono tutti uguali e valgono meno di “noi”.
  • Contagio emotivo: aderire all’atmosfera emotiva del gruppo anche se dissonante rispetto allo stato emotivo personale, per soddisfare il bisogno di affiliazione ed appartenenza. L’intenso coinvolgimento emotivo comporta una riduzione delle risorse cognitive, con conseguente prevalenza delle attitudini più rudemente istintive.
  • Senso di competenza/protagonismo: il tifoso si sente efficace “attore” dell’evento mediante l’identificazione con il giocatore o con la squadra, o addirittura ritiene di saper giudicare infallibilmente successi, insuccessi e scorrettezze di chi sta in campo. Gli ultras non si limitano ad assistere allo spettacolo, ma rivendicano il ruolo di protagonisti.

L’ambigua ed ingenua volontà di autoaffermazione, incongruamente concretizzata nell’obbedienza di fatto a slogans e direttive provenienti dai leaders del gruppo, caratterizza il tifoso in quanto membro di ciò che il socio-psicologo Bion definisce “gruppo in assunto di base” ovvero fondato su presunte appartenenze o affinità primarie e non su una progettualità razionale e costruttiva. Vi si manifestano forti tendenze emotive e la prevalenza di processi regressivi rispetto all’analisi oggettiva della realtà. Fra i gruppi in assunto di base si evidenzia in particolare il gruppo di attacco-fuga, formato per attaccare qualcosa o per fuggirla.

Sulle caratteristiche di questa tipologia di gruppo e sulle sue inquietanti coincidenze con la psiche fondamentalista riportiamo le parole dello stesso Bion: “Il quadro psicopatologico di base in questa strutturazione dell’identità psichica satura e saturante è la paranoia ed il modo di intendere la verità/realtà è caratterizzato da una dicotomizzazione [rigida opposizione duale] delle categorie cognitive e affettive; la “comunicazione” è di tipo esclusivamente strumentale: è vero ciò che si pensa sia utile e possa servire alla causa […]. Fondamentalista è chiunque ritenga che l’altro sia a-priori inferiore, nemico”.

Le caratteristiche sin qui esaminate, riguardanti il rapporto tra i singoli e il gruppo di appartenenza, sembrano completarsi -nelle apparenze percettibili- con la finalità della ricerca della vittoria sportiva della squadra con cui ci si identifica. In realtà il fine implicito e compiutamente appagante per il tifoso è l’acquisizione di una riconosciuta superiorità intesa da un lato come rifiuto sprezzante e ribellistico di ogni controllo da parte altrui, dalle società sportive alle forze di polizia, considerate una vera e propria tribù avversaria; dall’altro, come incontrastata esibizione di dominanza intimidatoria su persone (i tifosi avversari, gli spettatori non ultrà, perfino i calciatori e i dirigenti della società sportiva; spesso anche gli arbitri), cose (striscioni, vessilli, capi di abbigliamento, sirene ad aria compressa, petardi, armi proprie e improprie, etc.) e soprattutto luoghi, ovvero territori di riferimento che divengono oggetto di un investimento affettivo simile a quello dedicabile a “contrade di una patria sovrana” (la “curva”, il campo di gioco soggetto a frequenti invasioni e lanci di oggetti contundenti, certi spazi fuori dallo stadio, etc.).

Si tratta di fenomeni che fanno notizia, e quindi l’amplificazione ipertrofica che stampa, radio, TV e reti social ne fanno, contribuisce fortemente ad espandere la notorietà di individui e gruppi ultrà, incentivando così un più frequente e intenso ripetersi delle bravate. Ma su un piano più generale, riempire pagine e trasmissioni dei mezzi di informazione di spropositati spazi, tempi e maniacali minuzie di dettaglio riguardanti il business ultramiliardario del calcio, “divinizzandolo” a prescindere dagli innumerevoli episodi di partite truccate, doping, scommesse clandestine e brokers capaci di influenzare corruttivamente i risultati, arbitraggi “venduti”, finte lesioni da falli inesistenti, violenze e vandalismi di teppisti, etc. etc., è una delle tante follie di massa del nostro tempo che mistifica uno spettacolo grossolanamente mercantile infarcito di quantità abnormi di pubblicità, spacciandolo per uno sport conforme agli ideali di De Coubertin consistenti in sport praticato (“L’importante  è partecipare”) e solo sporadicamente osservato, non professionistico ed alieno da condizionamenti economici.

Condizioni del genere, che non riguardano solo il calcio ma tutto lo sport non dilettantistico ad alta incidenza di capitali e retribuzioni astronomiche, sono proprie di attività assolutamente, radicalmente anti-sportive. Le malefatte degli hooligans vengono di solito ingannevolmente giudicate azioni “che nulla hanno a che fare con il calcio”: vero, se il calcio rispondesse ai principi di De Coubertin; perfidamente falso considerando invece la realtà attuale di uno sport in cui le tifoserie in molti casi tengono letteralmente in pugno la dirigenza delle società calcistiche.

La frenesia di gratificazione attraverso una temporanea ma di fatto intoccabile sovranità è un fattore che in qualche modo assimila il comportamento dei tifosi a quello dei corpi militari. Non a caso infatti la tendenza tipica dei gruppi ultrà consiste nell’adozione di contrassegni, simboli, comportamenti propri di un’organizzazione militare. In una certa misura la contrapposizione fra tifoserie è peraltro una malsana parodia catartica degli scontri di guerra. Tali caratteristiche trovano accogliente terreno di adozione, crescita e diffusione tra i soggetti mentalmente predisposti a questi stili di condotta tipicamente e soprattutto (anche se non solo) consoni agli schemi mentali rigidi dell’estrema destra politica neonazista, neofascista e razzista.

Per quanto riguarda l’atteggiamento razzista si assiste ad una sconcertante contraddizione. Un nutrito e crescente numero di squadre italiane comprende calciatori di pelle scura, selezionati non soltanto per le eccellenti doti fisiche ed atletiche, ma anche per l’intelligenza di impiego delle loro capacità nell’ambito delle strategie di un complesso gioco di squadra. Ed è peraltro accertato che l’acquisto di campioni di colore è ampiamente sollecitato dalle tifoserie organizzate. Ebbene, le stesse tifoserie che esaltano i giocatori neri quando sviluppano un gioco vincente non esitano ad insultarli con appellativi razzisti quando sbagliano, e soprattutto scendono al più infimo livello della volgarità razzista lanciando banane e urlando frasi come “negro di merda” all’indirizzo di giocatori di colore della squadra avversaria. Questa incivile forma di comportamento sta imperversando perfino nel settore juniores, e la tendenza è statisticamente in preoccupante aumento.

Qualcuno sostiene che può non trattarsi di razzismo, ma di un atteggiamento cinico ed aggressivo che semplicemente usa senza rifletterci il tipo di insulto che sembra più vulnerante. Analogamente, c’è chi afferma convinto che in Italia non esista affatto un vero razzismo, se non in pochissimi casi patologici, e che l’apparente discriminazione etnocentrica verso gli immigrati esotici esprima maldestramente solo un disagio tipico di una “guerra tra poveri” causata da improvvide politiche immigratorie e sociali. Chi scrive concorda con una ragionata critica alle politiche poste in essere, ma non è affatto d’accordo sui presunti effetti delle stesse, perché al non razzista non passerebbe mai neanche per l’anticamera del cervello l’adattare rimostranze verbali all’esteriore apparenza non euro-italica dell’interlocutore. I suddetti fenomeni sono quindi deplorevoli e preoccupanti perché rientrano comunque nella discriminazione razziale, che non è affatto una realtà monolitica, bensì estesa da marginali e appena offensive espressioni micro-razzistiche ad atteggiamenti ed azioni sadicamente umilianti o efferatamente criminali.

Ricordiamo qualche dato saliente sull’entità del fenomeno. In tutta Italia si contano oltre 40mila ultrà suddivisi in più di 400 gruppi organizzati. Il Viminale ha accertato che nelle curve domina l’estrema destra nazi-fasci-razzista e che parecchi capi ultrà hanno alle spalle storie di criminalità organizzata, come Gennaro De Tommaso, soprannominato Genny a’ carogna, pluripregiudicato, soggetto a DASPO ma protagonista di spicco del protratto negoziato con la polizia e i calciatori del Napoli prima della finale di Coppa Italia contro la Fiorentina il 3 maggio 2014. Il leader degli ultrà della Lazio è Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, detenuto per traffico di stupefacenti. Nel 2014, all’Olimpico di Roma viene ferito a morte il  tifoso del Napoli Ciro Esposito.

Il governo Renzi reagisce approvando un decreto legge contro la violenza negli stadi, che prolunga fino a 8 anni il Daspo individuale e sancisce: il divieto di accesso alle manifestazioni sportive esteso a più reati, la facoltà del Ministro dell’Interno di vietare le trasferte di una tifoseria per due stagioni, l’estensione dell’arresto differito fino a 48 ore, l’obbligo di firma e di sorveglianza speciale per i recidivi.

Queste misure sembrano aver contenuto in parte l’insorgenza dei conflitti violenti, ma non riescono né ambiscono a debellare un fenomeno contraddistinto da notevole resilienza e fanatico “orgoglio del martirio”. Per tale motivo gli esperti sostengono che contrastare comportamenti estremi di teppismo sportivo con l’uso di gas lacrimogeni o di forza armata è controproducente e provocherà solo più violenza ritorsiva da parte dei fieri combattenti ultrà, come è accaduto a Catania con la morte di un Ispettore di Polizia. Le soluzioni del problema vanno dunque pazientemente cercate in altre modalità di intervento. Comunque la forza pubblica deve intanto essere efficacemente presente alle più frequentate partite di calcio.

Ma è proprio giusto che massicci contingenti delle forze dell’ordine siano continuamente distolti da più urgenti compiti istituzionali per esporsi -oltre tutto, in prima istanza, a tutela di eventi e interessi di natura privata- alle imprevedibili devianti dinamiche insorgenti dall’ambito delle tifoserie?

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