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Sanremo: l’ultima baruffa riguarda il rapper “sessista”. Ma se si alza il tiro…

Da un lato è solo l’ennesimo trucchetto per richiamare l’attenzione. Dall’altro, rientra in una strategia più complessa

Un baraccone che si prende sul serio.

La frase va benissimo per il Festival di Sanremo. E guarda caso va benissimo – va sempre meglio – anche per la politica attuale. Così come per gran parte del sistema mediatico nel suo insieme. Con un’affinità, e un degrado, che non hanno nulla di casuale.

Restiamo su Sanremo, per ora. La polemichetta di giornata è quella su Junior Cally. Un rapper che è stato inserito tra i partecipanti ma che adesso finisce nel mirino per certi suoi testi del passato. Che in effetti sono tutt’altro che “beneducati”, ma proprio per questo sono anche perfettamente in linea con quel tipo di linguaggio. E con tutto ciò che vi si accompagna, e anzi lo precede: il modo di vivere più o meno sfrenato di una gioventù che non sa cosa fare di sé stessa e quindi si consuma nelle periferie, o nelle discariche, del nichilismo più dozzinale. Tra stordimento ed eccitazione. Tra affermazione violenta e sradicamento sociale. Tra smanie di autonomia dai modelli dominanti e incapacità di affrancarsi davvero dal richiamo dei soldi e del consumismo.

Nessuna rivoluzione, che è rifiuto consapevole. Solo una ribellione nevrotica. Il corto circuito tra schiavitù collettiva e ambizioni personali.

La questione sarebbe elementare: che ce li porti a fare, dei soggetti del genere, in uno spazio come il Festival di Sanremo che è il tempio dell’ipocrisia nazionale?

La risposta è altrettanto netta. Rivoltante, ma netta.

La risposta è che ce li porti innanzitutto per una finalità di tipo commerciale: più il lunapark moltiplica le sue attrattive, vere o presunte, e più si spera di attrarre persone. O gonzi.

Detto a mo’ di slogan, aggiungere per raggiungere.

Aggiungere seduzioni, benché posticce, per raggiungere altro pubblico, benché mediocre. Mediocre ma pagante, sia pure nel modo indiretto della televisione e dei relativi spot pubblicitari: il divertimento “gratuito” è l’esca; l’acquisto delle mercanzie “consigliate” è l’amo su cui i pesciolini si infilzeranno.

Si nasce rap, si muore pop

La finalità ulteriore è più sottile. E ancora più dannosa. È il riassorbimento, attraverso il marketing, di qualsiasi forma di devianza. Allo scopo di toglierle la sua carica dirompente di condotta antisociale e di ridurla all’ennesima forma di trastullo innocuo, o comunque non pericoloso per il sistema dominante e per chi ne tira i fili.

Lo hanno già fatto con il rock, dai tardi anni Cinquanta in poi, e hanno visto che funziona a meraviglia: i giovani artisti gridavano il proprio disaccordo, gli adulti li mettevano sotto contratto. I giovani fan si entusiasmavano e compravano i dischi, i biglietti, il merchandising. I marpioni adulti ci si arricchivano. I generi cambiano. Il business si adatta.

Smaniate per Elvis? Eccovi Elvis.

Avete scoperto Bob Dylan? Eccovi Bob Dylan.

Vi accendete per il punk, o per il reggae, o per il grunge? Eccovi il punk, il reggae, il grunge.

Il rap autentico è una contraddizione in termini, a Sanremo. Quello che ci viene portato è quindi, per definizione, una sua versione depotenziata. Come in un tour turistico con vista sul bassifondi, però a distanza di sicurezza. Le rime mitragliate ridotte a filastrocca. La gestualità tribale ridotta a esibizione pittoresca. Gomorra coi sottotitoli, dal divano del salotto.

Più che un rap, un… rip. Sillaba iniziale di ripulito. O di riprodotto, nel modo artificioso che è tipico dell’industria dello spettacolo. Con assoluta prevalenza, perciò, delle tre sillabe conclusive: pro-dot-to. Prodotto.

Ovvero merce.

Con cui arricchirsi vendendola. Con cui instupidirsi, comprandola.

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