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“Finché giudice non ci separi” al Teatro Golden di Roma FOTO

Quando due artisti abituati per nascita a incontri ravvicinati frequentano con assiduità un direttore artistico versatile e determinato

Quando due artisti abituati per nascita a incontri ravvicinati frequentano con assiduità un direttore artistico versatile e determinato e un avvocato matrimonialista con la fissa del teatro, è pressoché inevitabile che venga fuori dal cilindro una controversia intrigata che, dato il tema, merita attenzione nella conduzione semiseria mai banale e plauso nelle conclusioni auspicate mai scontate. Il movente è ovviamente il gioco sul filo del rasoio ma non l’azzardo ed il provvedimento stragiudiziale di un giudice in libera uscita eviterà guai da pubblico ministero, sancirà l’accordo fra le parti e convertirà alla causa il pubblico sovrano. I quattro illustri compari di merende sono i fratelli Fornari, Andrea Maia e Vincenzo Sinopoli e il direttore d’orchestra è Augusto, uno dei soliti noti, autorevole come si conviene per rango e definizione. Si raccontano vicende più drammatiche che comiche, dai risvolti grotteschi trasfigurati da un’ironia amara, in cui analisi introspettiva e senso della misura, uniti allo straordinario affiatamento dei protagonisti, sostengono un intreccio eccellente e verosimile fino all’esito conclusivo. Quattro uomini in fuga da se stessi, da tutto ciò in cui si riconoscevano e a cui avevano trasferito i programmi di una vita in due. Ognuno gestisce come può un presente che non prospetta futuro.

Accomunati dal fallimento, persi in una dimensione diversa che rinnegano e inevitabilmente subiscono ma non accettano, tranne un’unica eccezione. Commedia di qualche anno fa i cui protagonisti sono drammaticamente autentici, appartengono ad ogni condizione, qualcuno è privato dell’onore oltreché del conto in banca, elemosina dignità, smarrito e patetico, frequenta malinconicamente le aule dei tribunali. Massimo è il più rappresentativo della specie, ha un metabolismo che rallenta a dismisura la percezione della fine e, incapace di reagire, non trova di meglio che lasciarsi andare a manifestazioni estreme. Ha tentato più volte il suicidio a seguito di una sentenza che gli ha tolto una bella dimora assegnata al coniuge, lo ha relegato in un seminterrato di periferia, squallido, maleodorante, gli ha imposto un consistente assegno di mantenimento da versare all’ex coniuge ma soprattutto lo ha privato dell’affetto più tenero, la figlia adolescente che può solo scorgere da lontano all’uscita da scuola. Imbottito di farmaci che esorcizzano la depressione, gli rimane il conforto di tre amici meno inclini allo sconforto che fanno a gara per nascondergli le pillole. Sono Mauro, Paolo e Roberto, separati anch’essi e tutti con problemi di separazione da smaltire.

Massimo è un antiquario benestante, intellettuale nutrito di cultura classica. La maestosa libreria di cui ha dovuto disfarsi viene rimpiazzata da alcune tavole imballate a marchio Ikea acquistate e montate goffamente insieme a Paolo con la supervisione poco interessata di Mauro. Quell’ammasso di truciolato e, a seguire, le gaffes a ripetizione di Roberto che rivendica l’acquisto in solitario e scoperchia vecchi rancori, non fanno altro che abbattere ancor più le residue difese di Massimo che rifiuta la commiserazione altrui. Roberto è un separato in casa sempliciotto ostinato e sprovveduto che, non avendo i soldi per pagarsi l’affitto e tanto meno l’avvocato per la separazione, avendo inoltre interessi comuni con la moglie, ha messo in atto un principio di divisione degli spazi coniugali delimitando le rispettive zone pedonali con un nastro in dotazione alla ‘municipale’. Mauro ha un ristorante di famiglia, colleziona donne come figurine, un call center perennemente acceso, è un tombeur de femme disinvolto e goliardico. Una valigetta di attrezzi particolari. E’ invidiato da Roberto, ripudia la tristezza cosmica dei compagni di sventura.

Diametralmente opposto ai suoi simili, fondamentalmente immaturo, interpreta il ruolo con esasperata sicurezza e irrompe con naturale strafottenza nelle situazioni altrui, proponendo rimedi drastici e imponendoli a se stesso. Paolo è il più riflessivo, un tipo taciturno poco incline a battute di spirito ma il più presente ed emotivamente coinvolto dal dramma di Massimo. Ha una sensibilità non comune e ha scoperto di sé una condizione intima che ne ha stravolto l’identità e determinato la decisione non più rinviabile di abbandonare il tetto coniugale per Saverio, cambiando così per sempre il proprio destino di uomo… Sarà una rivelazione shock che sbalordirà gli amici e rinsalderà il rapporto fra i quattro. La sorpresa vera è la imprevista irruzione di Silvie, una vicina di casa affascinante e che sa molte cose. E’ la proprietaria dell’attico da cui è caduto un osso appartenente al proprio cane e, per recuperarlo dalla corte di sotto, ha necessità di suonare quel campanello. Il faccia a faccia con il povero Massimo rivela l’identità della sconosciuta ma non altri particolari piccanti che il momentaneo scambio di due telefonini scoperchierà impietosamente. Le apparenze però sono come le bugie, hanno le gambe corte e in più lasciano il tarlo del dubbio che non sempre favorisce chi parte per primo e crede di essere in vantaggio.

La commedia cresce di intensità e d’ora in poi il testo e i protagonisti ne seguono le sorti. Il giudice in gonnella non ha scheletri nell’armadio né è disposta al sacrificio, non ha ombre che ne sminuiscano l’alto profilo. L’attacco arrembante si rivela un boomerang per Massimo come per chiunque provi ad attraversare un passato privo di ombre ma denso al contrario di ricca umanità rivendicata con fierezza. Novella Antigone, si appropria del proprio trasparente libero arbitrio in nome della libertà di coscienza contro ogni ingerenza o manomissione di comodo. Esalta una professione in cui ogni decisione assunta in condizioni precarie è un macigno interiore che logora cuore e mente e, comunque presa, ha un impatto devastante. Ed è proprio lei che indicherà a Massimo la via della speranza e del perdono accompagnandolo alla riconciliazione degli affetti e alla normalizzazione dei rapporti. Gran bella commedia agrodolce e divertente che induce a riflessioni su un fenomeno sociale allarmante, e dati i soggetti in campo, non sussisteva ‘legittima suspicione’. Un cast di qualità assoluta. Superlativo Augusto Fornari nel ruolo di Massimo, tragico, tenero e rigoroso, e poi sublime nel commiato venato di lirismo. Toni Fornari è Roberto, una macchietta imperturbabile, un bonaccione che quando prova a parlare fa danni ma non fa male. Anche lui il solito gigante che sa fare tutto in un ruolo insolito. Nicolas Vaporidis è Mauro; a suo agio in ogni circostanza, sa stare in scena alla perfezione.

Sciupafemmine che quando prova a pentirsi è poco credibile perché non può smentirsi e ci mette del suo per esigenze di copione. Luca Angeletti ha il ruolo più ingrato ma se la cava alla perfezione. E’ Paolo, misurato sempre, anche quando viene colto da una comprensibile crisi nervosa o si lascia travolgere da un pianto liberatorio. E poi c’e lei, Laura Ruocco, splendida interprete nel ruolo di Silvie e del giudice dai buoni sentimenti. E’ per me una rivelazione. Convincente in ogni espressione di scena, è dotata di un magnetismo che inebria e mette i brividi. Struggente e appassionata, determinata e ieratica, dolcissima caparbia consigliera infine che sconvolge e orienta solennemente il culmine della pièce.

Assolutamente da non perdere.

Al teatro Golden fino al 22 novembre 2015.

Sebastiano Biancheri

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